Anche se l’Italia meridionale ne è piena, il fico d’india – il cactus che proviene dal Messico ed è anche uno dei simboli di quel Paese – non è usato, se non i frutti. Eppure anche le foglie della pianta sono commestibili, e fanno parte da sempre della cucina messicana. L’abbiamo provata, grazie alla chef messicana Zahie Tellez che ci ha fatto… mangiare il cactus
Finché non me lo sono trovato lì nel piatto, accompagnato da un formaggio fresco e del pomodoro datterino, non mi ero mai posto il problema della sua presenza o meno sulla tavola. Perché è vero che tutti fantastichiamo sui piatti esotici con cui ci piacerebbe confrontarsi – dallo squalo alla medusa, passando per la cavalletta o i testicoli di toro – ma a nessuno capita mai di riflettere su ciò che effettivamente abbiamo a portata di mano senza mai assaggiare.
Ci sono pietanze che non ti aspetti, insomma, anche se la materia prima l’hai sempre davanti. E così per me, che sono fondamentalmente uomo di Sud, l’aver trovato la pianta del fico d’india è stata una doppia sorpresa. Culturale, prima che gastronomica. Perché di quel tipo di cactus – simbolo del Messico, peraltro, presente nell’iconografia dell’aquila che stringe tra gli artigli un serpente – l’Italia meridionale è piena, eppure credo che nessuno abbia mai pensato di mettere in menù una “pala”, al massimo riservando attenzioni al frutto del fico d’india per sorbetti o gelati.
Il cactus lo assaggio invece per la prima volta in 38 anni da Gurdulù, a Firenze, per una serata che la resident chef Entiana Osmenzeza divide con la collega messicana Zahie Tellez, ambasciatrice del Messico con ojos de hielo. In un menù a quattro mani, accompagnato da mezcal e tequila (più un qualificato commensale prezioso nell’illustrarmi ogni sfumatura che definisce la differenza tra questi due distillati), abbiamo scoperto che mangiare il cactus è operazione tutto sommato piacevole.
Il colore è verde, ovviamente, e l’aspetto è piuttosto simile a quello dei fagiolini verdi piatti. Il sapore non è particolarmente marcato, e richiama – appunto – quel tipo di fagiolini. Al massimo, una nota più gelatinosa in bocca. Scopro che il cactus viene tagliato a listarelle, lasciato essiccare e infine cucinato. Nello specifico, come si vede nella foto in basso, avvolto in una foglia di mais essiccata.
Al di là del gusto in sé di mangiare il cactus, il vero valore aggiunto l’ha dato l’accompagnamento: prima il mezcal, dal tipico sapore polveroso che entra in bocca già col primo sorso, e poi il tequila con il suo aroma delicato di rosa. Due prodotti che arrivano dalla distillazione della stessa pianta – l’agave azzurra Weber – ma tra i quali passa la stessa differenza che c’è tra il giorno e la notte.