venerdì 29 Marzo 2024
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Libri: ” Gli sbafatori ” di Camilla Baresani, tra imbucati e fuffblogger

Uno dei libri più attesi dell’anno per chi segue il mondo del food & wine: “Gli sbafatori” di Camilla Baresani. Il romanzo getta uno sguardo ironico e dissacrante sul mondo dei foodblogger e sui meccanismi che regolano le dinamiche del giornalismo enogastronomico, ma che sospende il giudizio e lascia fuori alcuni degli aspetti più significativi della “professione”

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Non lo nascondo, quello sugli “imbucati” per piacere o per professione è un libro che avrei scritto volentieri anch’io. O meglio, il romanzo “Gli sbafatori” di Camilla Baresani (ed. Mondadori Electa, 134 pagine, 16,90 euro) affronta un tema che da qualche anno a questa parte anch’io mi ero ripromesso di raccontare, tra il serio e il faceto, senza tuttavia il tempo e la costanza necessarie per andare fino in fondo (soprattutto perché stretto tra la voglia di raccontare personaggi e storie degne di un film di Monicelli e la necessità di non dover rispondere di diffamazione davanti a un giudice). Onore al merito della scrittrice, dunque, per aver dato vita a un libro che spalanca una finestra sul fenomeno degli imbucati, dei fuffblogger – il degenerativo di foodblogger – e sui meccanismi che regolano le dinamiche del giornalismo enogastronomico contemporaneo. Ce n’era un grande bisogno, non fosse altro per rendere edotta la popolazione (cit. Fabrizio De André, “Il testamento”) e soprattutto gli addetti ai lavori su un fenomeno che di volta in volta regala perle sempre più inusitate. L’ultima in ordine di tempo? Concedetemi una breve divagazione, affinché possa raccontarvi il sorriso che mi ha strappato quel noto personaggio X che a un pranzo stampa proprio ieri si è presentato accompagnato non solo dall’immancabile ganza (spacciata per collaboratrice/fotografa/assistente) ma anche da una coppia di amici. Dallo scrocco al quadrato, insomma, costui ha sfondato il muro delle quattro unità simultaneamente a sbafo. Un record che credo sarà difficile anche solo uguagliare, figuriamoci battere.

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Tornando al volume, il romanzo di Camilla Baresani ha senza dubbio alcuni pregi di non poco conto. Il primo dei quali l’abbiamo già accennato: aver sfatato un tabù del mondo della comunicazione e puntato i riflettori su quello che è un modus vivendi che consente a un numero più o meno ampio di persone – no, dai, sarò elitista (ed etilista) ma non ce la faccio a chiamarli colleghi… – di risolvere il problema di come risparmiare sulle spese ovviando a un frigo altrimenti drammaticamente sguarnito. Il secondo è quello di aver dato nuova linfa al dibattito pubblico sull’argomento, che in effetti è tornato sempre più frequente nei discorsi tra gli addetti ai lavori. Il terzo è di aver raccontato una storia leggera, godibile, mescolando personaggi veri e altri inventati (inclusi gli chef Redzepi, Picchi, Oldani e Marchesi), con un intreccio narrativo magari non particolarmente complesso ma compensato da un registro linguistico e stilistico più che apprezzabile. In fondo, si tratta di un romanzo e non un saggio o un trattato sulla fenomenologia dell’imbucato, per cui va bene così. Geniale poi l’epilogo, quando davanti alla prima richiesta di un conto da pagare il navigato Guidobaldo Venanzio Barini si rivolge a Rosa Bacigalupo con una frase che segna la caduta della maschera, l’antitesi di ciò che era stato costruito fino a quel momento: “Che facciamo, dividiamo?” le chiese. Fu così che si guardarono negli occhi, disgustati l’uno dell’altra.

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Fin qui i lati positivi. Il problema è che conoscendo l’argomento e avendo dunque aspettative piuttosto alte – viste anche le cristalline referenze dell’autrice del volume – in cuor mio speravo che Camilla Baresani andasse fino in fondo, infilando la penna ben dentro al vostro orgoglio (cit. Francesco Guccini, “Cyrano”) facendo magari più ricorso allo spirito d’osservazione che non le manca e all’ironia che da sempre ha come preziosa freccia al proprio arco. Lo so, una recensione dovrebbe tenere alla larga le aspettative individuali, ma il libro viene presentato come “La storia di una generazione che prova a intrufolarsi nel banchetto collettivo. A sbafo”, e forse promette un po’ più di quanto non mantenga in realtà. Il romanzo è suo e non deve rendere conto a nessuno delle proprie scelte, ma a mio giudizio a “Gli sbafatori” manca una punta di coraggio (magari è solo debita e ponderata prudenza) nel raccontare alcuni aspetti del fenomeno, probabilmente quelli più deleteri: ad esempio, non viene mai menzionata – nemmeno suggerita – l’esistenza di una rete di giornalisti e blogger di basso cabotaggio che ogni città annovera tra il proprio folklore (a Firenze se ne conta circa una decina, in perenne contatto per riuscire a non mancare agli appuntamenti più goderecci), né sono descritti gli stratagemmi utilizzati per infilarsi a un buffet, per entrare in una mailing list, per accaparrarsi un gadget e così via. È questa la generazione di sbafatori che l’autrice non considera o sfiora appena nell’economia della narrazione: limitandosi a delineare i tratti di due tipi ideali (il navigato critico Guidobaldo e l’ingenua blogger esordiente Rosa) e un microcosmo che gira loro intorno, Camilla Baresani restringe il campo perdendo così l’occasione di scoprire gli aspetti più pittoreschi del variegato mondo degli imbucati.

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Da puntuale cronista, l’autrice coglie l’importanza di evidenziare alcuni background collettivi oggi tristemente comuni: dalla frustrazione di dover ridimensionare le proprie aspettative riciclandosi nel foodblogging dopo un master in giornalismo, all’amarezza di doversi aggrappare a questo strumento pur di non ammettere di essere arrivati a 27 anni senza aver combinato granché, fino alla disillusione nel rendersi conto di aver costruito una carriera tra tv e guide solida quanto un castello di sabbia. Da abile narratrice, poi, Camilla Baresani non cade nella tentazione di trasformare la blogger Rosa nell’antieroina della storia – quasi a voler vendicare il buon nome della categoria dal vulnus degli sbafatori- ma riesce a far schierare il lettore dalla parte della protagonista, facendole fare incetta di simpatie, immedesimazioni e compatimenti. La realtà è spesso però meno romantica: la storia descrive bene un contesto e alcuni suoi protagonisti, ma manca forse una lettura critica del fenomeno, un giudizio di merito. Cito al riguardo l’amico Stefano Tesi, che nella continua querelle se sia più da condannare Wanna Marchi o chi ci casca volge le sue simpatie alla prima e mostra il pollice verso ai secondi. Mutatis mutandis, mi chiedo se sia più giusto stare dalla parte di chi vive di espedienti pur di continuare a restare a galla (in una sorta di darwinismo giornalistico-sociale che si fa beffe della deontologia) tra un buffet e un educational, di chi spende cifre tutt’altro che esigue per avere alla propria corte personaggi del genere (e che magari paga anche qualche agenzia e/o pr perché glieli porti) o ancora di chi ha costruito una reputazione e una credibilità non misurabile esclusivamente in followers e like. Da questo punto di vista, la parte finale del libro con le ricette esistenziali di Rosa è tanto divertente nell’elargire suggerimenti per lo sbafatore in fieri quanto tristemente priva di un sonoro richiamo al fatto che il giornalismo e il blogging enogastronomico – quello vero, almeno – dovrebbero essere anni luce distanti da questi cattivi esempi.

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Rifacendosi alle esperienze milanesi, evidentemente ben più dorate di quelle fiorentine, “Gli sbafatori” dipinge poi un mondo in gran parte attinente alla realtà ma che a tratti diventa caricaturale. I press tour esistono, le cene nella “splendida cornice dell’esclusiva lounge” altrettanto, così come le cene stellate e molto altro di ciò che l’autrice racconta. Meno facile è per me immedesimarsi – o almeno provarci – con alcune situazioni descritte, ossia con la rapida ascesa della blogger Rosa nell’olimpo del presenzialismo e la facilità con cui arrivano a pioggia sia inviti che banner pubblicitari o rimborsi. Chi frequenta Milano mi conferma che di casi del genere ce ne sono in abbondanza, ma esiste anche un sottobosco fertile e fecondo, purtroppo. Un sottobosco che difficilmente potrà ambire al colpo di fortuna occorso a Rosa ma che nutre una ragionevole aspettativa di continuare a cercare cene, gadget, inviti et similia accontentandosi di questo.

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È il sottobosco – questo sì, che andava raccontato con dovizia di particolari – di chi per mesi ti chiama con un altro nome per non essersi preso la briga di impararlo, che durante le giornate della moda o le anteprime del vino ti avvicina per chiedere se e come hai ricevuto l’invito alla cena di gala dell’indomani, che nei pressi del locale che ospita un evento ti chiede se all’ingresso c’è qualcuno che conosci in grado di farti passare. E ancora: il sottobosco dell’attempata signora che scrive di food & wine senza aver mai partecipato a una degustazione (ah, il copia-e-incolla…), di chi si presenta accompagnato ben sapendo che non scriverà mai un rigo su colui che in quel momento sta pagando la cena a lui e signora, di chi fa incetta di borse e cataloghi per poi rivenderli ai mercatini, di chi millanta un titolo da giornalista che non possiede solo perché ormai nessuno si prende la briga di verificare, di chi sottrae l’ultima cartellina stampa per prendere la chiavetta Usb lasciando senza coloro ai quali quelle informazioni servono davvero. Eccola, la vera “generazione che prova a intrufolarsi nel banchetto collettivo” di cui nel libro della Baresani ci sono solo pochi sprazzi. Un’epopea ignobile e ingegnosa al tempo stessa, (cattiva) maestra nell’arte di arrangiarsi, che nel libro apripista del settore dovrebbe reclamare un posto. Stavolta sì, in prima fila.

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