Ritratto dello chef Marco Stabile, uno degli chef può quotati a livello nazionale: qualcuno lo potrebbe definire un dissimulatore, in senso buono, ma il patròn dell’Ora d’Aria è qualcosa di più e di diverso
Qualcuno lo potrebbe definire un dissimulatore, ovviamente in senso buono e in ambito culinario, ma Marco Stabile è qualcosa di più e di diverso: si potrebbe paragonare a un illusionista, per la maniera sempre nuova in cui riesce a stupire i suoi ospiti. A Firenze nessuno come lui – il trentanovenne chef dell’Ora d’Aria, ormai da qualche anno consacrato come uno dei protagonisti della cucina ben oltre i confini italiani – è in grado di giocare con i colori, i sapori e i profumi per creare piatti decisamente fuori dall’ordinario. A partire dai piccoli particolari (che poi tanto piccoli non sono….) come il pane:
Al di là dell’abilità tecnica e delle competenze che – partendo dalla cucina di via dei Georgofili – lo hanno reso famoso, c’è un aspetto sul quale vale la pena soffermarsi: la sua costante capacità di creare illusioni, divertissement, quasi una sorta di trompe l’oeil applicati alla gastronomia. Un esempio, sperimentato qualche tempo fa: il cameriere ti porta sul piatto una crema gialla, e pensi subito sia puré di patate. Niente affatto: colore e consistenza sono quelli, naturalmente, e solo in bocca scopri che è mela. E resti a bocca aperta (dopo aver inghiottito, of course) per lo stupore. Ancora: ti porta un uovo in camicia, e ci metti forse più di un attimo a renderti conto che nulla di ciò che hai davanti è in alcun modo riconducibile a un uovo: il tuorlo arancione è in realtà albicocca, l’albume è un semifreddo e così via.
Stupore e meraviglia, insomma. Anche quando tempo fa trasformava le costolette di maiale in un chupa chups usando l’osso come bastoncino. Siamo tornati qualche settimana fa all’Ora d’Aria per una cena che si preannunciava “toscana”. Ebbene, lungi dal servire ribollite o pappa al pomodoro, ogni piatto che è stato servito era espressione – opportunamente rielaborata – di elementi della cucina regionale, con sconfinamenti geo-culinari internazionali. Eccoli:
L’antipasto è un brodo di gallina con uovo in camicia (vero, stavolta), bollito, caviale iraniano e un assaggio di fegato. Sapori equilibrati, armoniosi, perfettamente bilanciati.
Il secondo antipasto è forse il classico esempio dell’arte dello stupore di cui parlavo: crema di ceci maremmani all’olio d’oliva con trippa di baccalà e “falsa cenere”. Si presenta nera e grumosa come la cenere, in realtà è nero di seppia opportunamente tostato ma te ne accorgi solo dopo aver spezzato l’incantesimo rompendo con la forchetta il “quadro” nel piatto. Chapeau.
Il primo è un piatto di tortelli di farina di castagne, ripieni di ricotta e parmigiano invecchiato 30 mesi. Il sughetto legava piuttosto bene con i tortelli, saporiti nonostante la delicatezza della castagna.
Il secondo è un piatto che all’inizio spiazza il commensale: si riconosce subito il petto d’anatra (non invece il particolare “maschio” che ci racconta il cameriere) ma non i due assaggi di patate blu, mentre la carota che appare bruciacchiata è in realtà morbida e cotta al punto giusto. Ottimo il tocchetto di foie gras in un angolo.
Il dolce è un bicchiere di tiramisù aromatizzato alla birra, morbido e cremoso.