Per l’arrivo della primavera lo chef Matteo Lorenzini del Se.Sto on Arno ha elaborato un menù particolare, dove i piatti celebrano le materie prime di stagione e riflettono la personalità del loro artefice con sapori decisi, ispirazione francese e impiattamenti contemporanei. Una prova d’autore che non ha bisogno di firma per essere riconoscibile
La primavera risveglia la natura, ok, ma a volte anche l’estro degli chef. E per uno che ha fatto della cucina creativa uno dei cavalli di battaglia, l’arrivo della bella stagione non poteva che tradursi in un menù ad hoc. Ecco dunque che dalla terrazza del ristorante Se.Sto on Arno, a Firenze, lo chef Matteo Lorenzini ha costruito un menù che celebra le materie prime di stagione i cui piatti riflettono la personalità del loro artefice. Uno dopo l’altro, ecco sapori decisi e piatti ricchi che non tradiscono l’ispirazione francese – sempre presente nella cucina di Matteo – ma arrivano in tavola con impiattamenti di foggia contemporanea. Una prova d’autore, il suo menù, che non ha nemmeno bisogno di una firma per essere riconoscibile agli occhi di chi bazzica un minimo l’alta cucina fiorentina.
Dopo un amuse bouche di coccolo ripieno di burrata, la degustazione esordisce con un piatto del menù serale, un’ostrica scottata con perle di consommé, emulsione di lime e pesto di coriandolo. Servita su un piatto particolarmente scenografico, il piatto mostra quanto potente sia l’influenza francese nel modus operandi del giovane chef toscano, sempre alla ricerca degli equilibri.
Dopo un altro antipasto come il carpaccio di lingua di manzo con salsa verde e melanzana, il menù è proseguito con cipollotti gratinati ripieni di foie gras con crema di piselli e spugnole al vinsanto. Piatto ricco (mi ci ficco), secondo un vecchio modo di dire. Eppure è vero: è la ricchezza, l’elemento comune che caratterizza tutto il menù. In questo caso specifico, un piatto prettamente vegetale ma senza quella “semplicità” che si ci potrebbe aspettare da una pietanza simile. Tutt’altro: è un piatto d’impatto, primaverile, il primo in cui la trama della spuma riprende il motivo con cui sono decorati i piatti.
Lo stesso piatto con i buchi lo ritroviamo nella portata seguente, il risotto con crema di caffè, midollo e ostrica. Forse il piatto più riuscito dell’intero menù: in effetti, personalmente ho bevuto dei caffè che sapevano meno di caffè di quanto non facesse questo risotto. Invitante all’olfatto, morbido in bocca, avvolgente, ricco nei suoi sentori – che addirittura qui debordano in una nota di cappuccino – e preciso nell’esecuzione, con il riso che è cotto esattamente come dovrebbe essere secondo il mainstream.
Il secondo è una sella di maiale con mela renetta, purea di mela golden e radicchio avvolto nel lardo. Un piatto grasso e succulento, ben giocato tra la morbidezza della carne (cotta per 59 ore), l’opulenza dell’intingolo e l’acidità della mela. Anzi, delle due mele. Perché il professionismo lo si vede dai particolari, e usare due mele diverse per sfruttarne le diverse caratteristiche organolettiche è ciò che in fondo giustifica la spesa in un ristorante d’alta fascia.
Infine, il dessert color pastello: non saranno cinquanta sfumature di rosa, ma il risultato c’è tutto. Un cremoso alle mandorle con cuore di lampone, sorbetto di rabarbaro, karkadè e crumble di biscotto al cioccolato. Una selezione degli ingredienti guidata dal colore ma efficace nell’esito, non troppo dolce ma intrigante per la varietà di texture che propone al palato. Un dolce complesso, di carattere. La degna conclusione di un menù che dà voce al talento di Matteo Lorenzini: attraverso i suoi piatti lo chef parla al commensale, e sembra dire “eccomi, questo sono io e questo è ciò con cui voglio stupirti”. Riuscendoci, ancora una volta.