Abbiamo provato la Fisceria in via San Zanobi, a Firenze, con la curiosa sensazione di essere un corpo estraneo: restano perplessità sulle informazioni nel menù e sulla riuscita di qualche piatto
Avete mai provato la sensazione di trovarvi nel posto sbagliato al momento sbagliato, o quantomeno di non essere a vostro agio in una struttura che – come un ristorante – dovrebbe invece fare dell’accoglienza uno dei suoi punti forti? Ebbene, questa è la prima sensazione che ho avuto visitando la Fisceria (sic!) in via San Zanobi, a Firenze, un lunedì di metà gennaio a pranzo. Dalla strada, vista l’assenza di particolari adesivi e con il vetro scuro che non lasciava intravedere avventori, ho avuto qualche perplessità sul fatto che il locale fosse effettivamente aperto. Una volta dentro, ho davvero dovuto chiedere se fossero aperti perché anche i titolari erano seduti al tavolo insieme ad altri quattro commensali, e senza nessuno ad accogliermi all’ingresso né alla cassa ho realmente pensato di aver disturbato il pranzo della brigata. Insomma, quella sgradevole sensazione di essere finito in casa d’altri o di essere un corpo estraneo in un altrimenti familiare consesso privato.
Superato il primo empasse, mi siedo e dò un’occhiata al menù, scritto a grandi lettere su una lavagna a muro. Che dire? Magari non proprio una varietà di scelta esagerata, per un ristorante che fa del pesce (anzi, del fisc…) il proprio cavallo di battaglia, ma comunque sufficiente ad accontentare i palati orientati a soluzioni più diverse. Il problema è che se hai la lista dei primi, come fai a scrivere “primo tonno e pistacchi”, “primo allo scoglio”, “primo alle vongole” e così via? Non era meglio indicare il tipo di pasta? Mi sono detto che forse hanno voluto far così per segnalare che è possibile far scegliere il formato di pasta al cliente, ma a me nessuno ha chiesto alcunché: ho scelto un primo (ci torneremo) e quello mi è arrivato, lasciandomi la sorpresa sul fatto che potesse essere pasta corta o lunga, fresca o secca.
Nel frattempo, mentre aspetto che arrivino le ordinazioni, dò un’occhiata alla carta – pardon, alla lavagna – dei vini in lista alla Fisceria. Anche qui, mi perdoneranno i titolari (gli stessi dello Spuntino di Pesce in Santo Spirito, ndF), noto un certo grado di approssimazione: buona varietà, ma i nomi indicati sono quelli della tipologia di vino, senza altri dettagli. “Vermentino”, ad esempio, è di Liguria, Toscana o Sardegna? E il rosé toscano a 20 euro forfettari, da dove viene? Non un cenno né sull’annata né sull’azienda. Minuzie? Forse, ma non certo per chi conosce un minimo il mondo dei vini.
Transeat, comunque. Dopo qualche minuto arriva l’antipasto, la zuppetta di (cinque) moscardini. Piatto gradevole, servito alla temperatura giusta, un buon antipasto nonostante la pioggia battente di prezzemolo che vi si è abbattuta con la forza di un acquazzone primaverile.
È sul primo piatto della Fisceria, che invece restano le perplessità maggiori: una porzione abbondante di “primo al tonno e pistacchio” in cui quest’ultimo risulta non pervenuto – né agli occhi, né sotto i denti come consistenza, né a livello di papille – e il tonno si rivela una sorta di macinato grossolano, quasi un ragù di mare. Forse il pistacchio era un “pesto di…”, ma in ogni caso ogni traccia del suo sapore veniva decisamente sopraffatta sia dal trito di tonno sia (e daje…) dal prezzemolo, riversato in quantità industriale.
Alla fine lascio la Fisceria con la consapevolezza di un piatto promosso e uno no, con il disappunto di un menù che con un po’ di attenzione può essere reso più esaustivo, con la sensazione di aver visitato un locale familiare ma che può dare un significato diverso all’aggettivo “informale”: basta non oltrepassare quella sottile linea che ti fa essere né un freddo estraneo ma nemmeno così invisibile da non sembrare un cliente.