Con una vista panoramica, il ristorante Terramira a Capolona (Ar) è il luogo dove trovano sintesi le passioni dei fratelli Scapecchi (Filippo in cucina, Lorenzo in sala), artefici di un’esperienza culinaria che punta su territorio e valorizzazione del vegetale
foto di Luca Managlia
Non è semplicissimo, arrivare a Capolona, ma è una di quelle mete che valgono il viaggio: questo tranquillo paesino immerso nella campagna alle porte del Casentino a 12 km da Arezzo trova nella concomitanza tra due elementi – la vicinanza con la sponda destra dell’Arno e un suggestivo scorcio panoramico fuori dal tempo (il fiume che scorre lento, il ponte di mattoni, le case in pietra) – un valore aggiunto importante.
È qui, in questo angolo di convergenza tra natura e paesaggio, che i fratelli Filippo e Lorenzo Scapecchi hanno voluto ridare vita a un fondo già avvezzo al mondo dell’alta cucina: il loro ristorante Terramira – il cui nome richiama quell’idea di terra mirabilis, ossia meravigliosa, che già venne citata da Dante nella Divina Commedia – sorge là dove una volta c’era l’Acquamatta, primo locale a ottenere la stella Michelin nell’aretino prima dell’arrivo del Falconiere a Cortona.
E chissà che il movimento ininterrotto delle stelle tanto caro al Sommo poeta non riporti a Capolona quel tipo di soddisfazioni. Le premesse non mancano, a giudicare dalla cucina che Filippo Scapecchi ha allestito dal gennaio 2019, da quando cioè i due fratelli decisero di rilevare e svecchiare la precedente struttura, che già da un decennio aveva lasciato quelle sponde. Già non era facile far abituare la clientela, e se a ciò si aggiunge il duobus annu horribilis della pandemia, non c’è da stupirsi se soltanto negli ultimi tempi Terramira stia iniziando a raccogliere quanto seminato.
Ma partiamo dai protagonisti: nati da una famiglia già legata al settore – il nonno faceva il macellaio, con l’hobby per la caccia, la pesca e la raccolta di funghi, la nonna invece era dedita all’orto e alla buona tavola di casa – i fratelli Scapecchi seguono strade diverse ma parallele. Classe ’82, Filippo abbandona gli studi tecnici e accumula esperienze tra Auckland (Nuova Zelanda) e New York prima di inanellare una serie di collaborazioni “bistellate” da Gaetano Trovato a Francesco Bracali fino a Nino di Costanzo. Lorenzo, più giovane (’86) è attratto dal vino e impara da Luca Martini prima di andare a Londra alla corte di Locanda Locatelli per poi tornare a Firenze all’Ora d’Aria con Marco Stabile e al Palagio del Four Seasons. Nel frattempo diventa il Miglior Sommelier Toscana Ais 2014.
Poco visibile da piazza della Vittoria, ma forse per questo ancor più sorprendente una volta percorsa la stradina che porta all’entrata, oggi Terramira si divide tra il corpo principale – una ventina di coperti, in un design moderno e le grandi finestre che guardano l’Arno (“volevamo che la gente ammirasse l’esterno e non l’interno” chiosano i Scapecchi Bros) – e due salette private adiacenti l’ingresso del locale, anch’esse caratterizzate da arredi in legno, pietra a vista, divanetti e comode sedute.
Non c’è dubbio che chef Filippo Scapecchi intenda far conoscere le eccellenze del territorio, e che si senta a proprio agio tanto con la carne chianina (quella di Simone Fracassi, ça va sans dire) e la cacciagione quando col pesce di fiume. Tuttavia è nella valorizzazione della componente vegetale – non solo le erbe di campagna, elaborate nel rispetto della tradizione ma con un tocco fresco e innovativo, ma anche pollini e fiori – che esprime la maggiore maestria in ognuno dei tre menu degustazione del Terramira: Territorio (80 euro), Ricerca (80) e – per l’appunto – Vegetale (70), ognuno da 7 portate.
Un capitolo a parte meritano le amuse bouche, talvolta elementi relegati a un ruolo marginale nell’economia di un pasto gourmet ma qui autentico manifesto della cucina di Filippo Scapecchi, quasi una dichiarazione d’intenti o una summa delle preparazioni e accostamenti più cari a chi sta in cucina. Oltre alle già citate erbe, nei cinque pezzi d’autore si passa con disinvoltura e leggerezza dal filetto di daino alla chianina, dal piccione al gyoza.
Si parte con una trota del Casentino – non una qualsiasi, ma dell’Antica Acquacoltura Molin di Bucchio a Pratovecchio, uno dei sei migliori allevamenti d’Europa – con capperi, burro al limone, verdure di stagione (piselli, asparagi, agretti), crumble di beurre noisette, fiori di oxalis e verbena. Piatto sorprendentemente saporito, sfaccettato, così come la successiva anguilla alla brace glassata con alga nori e soia, su una base di riso al salto a mo’ di nigiri e radici (daikon, zenzero) in agrodolce.
La predilezione di Filippo Scapecchi per il mondo vegetale si rende evidente anche nei primi, a partire dai Tortelli di cipolla di Tropea alla brace, gel con estratto di barbabietola rossa e lamponi, burro alle erbe e mix di fiori dell’orto. Grazie all’alternanza tra acidità, piccantezza e aromaticità di questi ultimi, ogni boccone svela un sapore diverso, su cui la cipolla fa da base. Altrettanto riusciti i tortelli di faraona con il suo fondo e salsa all’aglio dolce, con fiori d’aglione sbollentati e pepe d’acqua.
La parte meno usuale del pasto arriva con il secondo, affidato a un capretto del Casentino: spalla e coscio sono composti come un mattoncino, accompagnato da fave e yogurt di latte di pecora aromatizzato al coriandolo. Insieme ad esso, in omaggio alla scelta sostenibile di utilizzare tutto l’animale, viene servito un gyoza di frattaglie (fegato, cuore, polmone, rognone, ecc…) e cervello fritto. C’è da chiedersi, alla luce del risultato, come mai il capretto resti una carne ancora così difficile da trovare in un certo tipo di ristorazione.
Trattandosi di uno chef che ha nel curriculum un passaggio alla corte di Gaetano Trovato, poi, il piccione è un must da tenere in carta: la versione dello chef del Terramira ne vede il petto arrosto (ma non lasciato eccessivamente al sangue) e la coscia cotta in stile barbecue, con rabarbaro, fondo di porcini e spinaci. Anche qui, la scelta del rabarbaro dà un tocco diverso dal classico.
Lo chef riesce a inserire una componente vegetale anche sulla parte finale del pasto, tanto nel predessert – un fresco gelato al bergamotto con sedano, levistico, cremoso al cioccolato bianco e liquirizia – quanto nel dolce, una torta Opéra con gelato di pera decana e cardamomo.