martedì 16 Aprile 2024
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Sul serio, abbiamo davvero ancora bisogno di nuovi All you can eat?

Nemmeno la crisi della ristorazione ferma nuove aperture dei ristoranti asiatici “All you can eat”, formula che consente di mangiare a prezzi sospettosamente bassi (specie se al cliente si raccontano qualità ed esclusività)

Tanta fatica a cercare di far passare concetti legati all’importanza di preferire un’alimentazione salutare ed equilibrata, di sostenere i produttori di materie prime di qualità, di far capire come la leva del prezzo non debba essere l’unico criterio di selezione di un ristorante, di un vino o di un olio d’oliva. Che poi a ben vedere il principio vale anche per tutto il resto, dalla scelta del branzino vecchio di una settimana in offerta speciale fino alla preferenza accordata al traslocatore o all’elettricista che costano meno: chissenefrega se per tenere il prezzo così basso pagano poco i dipendenti o non eseguono lavori proprio a regola d’arte, in fondo cosa sarà mai il rischio di un corto circuito o un mobile scheggiato. Insomma, tanto tempo a spingere sul principio che la qualità ha un costo, oltre che un valore, e poi vedi che il modello di business degli “All you can eat” non conosce crisi, aprendo locali anche in un momento così difficile.

È vero che siamo il Paese in cui l’indignazione dura meno dell’orgasmo, e che le polemiche sul rapporto qualità/prezzo tornano periodicamente in auge quando qualche supermercato propone vino Docg a 2,99 euro o addirittura Doc a 1,99 euro. Ci stracciamo le vesti per qualche minuto quando leggiamo di olio Evo in vendita a 4,99 euro, sapendo che visti i costi di produzione e mille altri fattori è praticamente impossibile che quel prodotto abbia alcuna proprietà salutare per il nostro organismo. Davanti a un vino a pochi euro si fa la battuta “questo l’uva non l’ha vista neanche col binocolo”, poi però non ci domandiamo di che qualità siano materie prime – peraltro delicate come il pesce alla base di sushi e sashimi, in grado di provocare malesseri non da poco – se vengono venduti con formula All you can eat a 15,90 euro.

Eppure qualche domanda uno dovrebbe porsela: se con quella cifra in un ristorante asiatico (giusto per restare in un campo gastronomico omogeneo) acquisti massimo due piatti, non ti viene qualche dubbio a pensare che qualcosa non torna se altrove allo stesso prezzo ti consentono di riempirti la pancia senza limitazione alcuna? Da qui il titolo di questo post: abbiamo davvero ancora bisogno di questo tipo di cucina? Abbiamo ancora bisogno di fare i calcoli di quanto si è mangiato per vedere quanto poco siamo riusciti a pagare ogni singolo boccone? Probabilmente no, ma – parafrasando un vecchio detto – sugli scaffali c’è spazio per tutto, dalla primizia alla sottomarca.

Mi si dirà: “Il solito talebano, come fai a dare per scontato che la qualità sia bassa?” Beh, in effetti non è scontato. Ci sono due scuole di pensiero, una che punta l’indice sulla bassa qualità del pescato, sullo sfruttamento della manodopera e sul riciclo (metti in vendita A, non va via, il giorno dopo verrà trasformato in B, che la materia prima si sia degradata non è un problema, basta che non lo si senta), l’altra invece asserisce che il costo unitario sia molto basso (un cuoco sushi pagato circa 1500 euro arriva a fare 240 rolls/ora, lavorandoci per 5 ore al giorno produrrà 1200 roll al giorno ovvero 7200 maki al giorno con un’incidenza di 0.021-0,025 centesimi a roll) sia per il riso che per la quantità di pesce (circa 6–8 g/maki, incidendo quindi da 0.084 a 0.112 €/maki).

Al di là del fatto che i ristoranti All you can eat abbiano poi i loro “segreti” per non andare a rimessa (l’assenza di sashimi a pranzo, quando le persone spesso lavorano e non vogliono mangiare tanto; l′acqua e le altre bevande a parte; i tempi lunghi tra un ordine e l’altro che portano a riempirsi lo stomaco bevendo se non c’è un buffet) c’è poi un’altra questione. Se i clienti si riempiono la bocca di sushi, maki e tempura, i locali di All you can eat fanno lo stesso con la propria presentazione: c’è chi parla con sprezzo del ridicolo di – cito testuale – “creare un’esperienza culinaria superlativa, memorabile, intima, elegante e una gioia per tutti i sensi. Ti trasporteremo in un altro mondo, dove potrai apprezzare in ogni istante le raffinatezze del tempo e dello spazio”. Ora, al netto che le raffinatezze del tempo e dello spazio mi fanno venire in mente più Star Trek che un ristorante, si parla spesso di alta qualità, di pesce abbattuto e certificato, ecc…. tutte cose poi difficilmente compatibili con promozioni come quella che offre alle signore di mangiare a volontà per 12,90.

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Marco Gemelli
Marco Gemelli
Marco Gemelli, classe ’78, giornalista professionista dal 2007. Dopo anni come redattore ordinario al quotidiano Il Giornale della Toscana, dove si è occupato di cronaca bianca e nera, inchieste, scuola e università, economia, turismo, moda ed enogastronomia, è passato alla libera professione. Oggi collabora con diverse testate online e cartacee, tra cui Il Giornale, Forbes, l'Espresso, Wine & Travel. È membro della World Gourmet Society e dell’Associazione Stampa Enogastroagroalimentare Toscana (Aset), nonché corrispondente italiano per Lust Auf Italien.

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