giovedì 25 Aprile 2024
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Chef Simone Cantafio: “Qui in Giappone ho appreso l’arte di togliere il superfluo”

Lo chef di origini calabresi Simone Cantafio, dal 2015 lavora a Toya (Hokkaido) nel ristorante Bras Toya Japon, in bilico tra il rispetto della cucina giapponese e tocchi di occidentalità

Quando nel 2012 Michel e Sebastien Bras gli proposero di visitare il loro ristorante sull’isola di Hokkaido, nel piccolo villaggio di Toya, Simone Cantafio forse non immaginava che quella parte di mondo potesse diventare la sua nuova casa. Eppure nel 2015, dopo sei anni passati in Francia e due in Inghilterra, lo chef calabrese iniziò la sua avventura come chef e direttore del ristorante Bras Toya Japon.

“Da Gualtiero Marchesi a Enrico Crippa, tanti amici mi consigliarono di fare un passaggio in Giappone perché era una tappa fondamentale per rendere la propria cucina più essenziale, pulita e leggera nei gesti ma più profonda nel carattere. Quella nipponica è una cucina elegante, caratterizzata dal valore dato alla materia e dall’essenzialità: pochi fronzoli ma forza e precisione nelle cotture, nel taglio, nei vari passaggi della lavorazione della materia calcolati al millimetro, gesti ripetuti cento volte per avvicinarsi alla perfezione”.

“Avevo il vizio di ‘caricare’ i miei piatti, ma frequentando i maestri giapponesi e con l’aiuto di Michel e Sebastien Bras ho imparato a togliere il superfluo per dare spazio alla materia di esporsi nella sua eleganza migliore, nel suo gusto essenziale e puro. Ho imparato queste sfumature, codici di cucina nipponica, in una sorta di silenzio profondo, catturando con gli occhi l’arte dei maestri. Qui il rispetto della gerarchia è sacro ma non ostentato, non si discute mai, hanno nel sangue un rispetto imprescindibile per le regole: replicare il gesto del maestro non è una noiosa mania, bensì un metodo minuzioso di apprendere e migliorarsi giorno dopo giorno”.

“Prima di approdare in Giappone ho fatto il mio percorso in grandi brigate tra Italia, Francia, Inghilterra e Australia. Molte volte, ai cuochi più giovani che vogliono provare l’esperienza nipponica dò qualche piccolo consiglio: le cose vanno fatte a tappe e con criterio, se io fossi partito per il Giappone dopo qualche esperienza solo in italia probabilmente sarei durato poche settimane. Meglio fare esperienza prima in Paesi più vicini – Francia, Spagna o Inghilterra – per formare il carattere, rendersi indipendente e in grado di vivere da soli, capendo fino dove ci si può spingere. Poi ben venga l’Asia, ma bisogna avere le spalle larghe per poter durare a lungo e costruire un percorso duraturo. … non parlo solo di cucina ma parlo di vissuto quotidiano.

Di tutti i Paesi in cui ho lavorato, il Giappone rappresenta la serie A della cucina. Pensiamo ai coltelli: ognuno custodisce i suoi e sempre li affila come rasoi prima del servizio, come fosse una cerimonia. Ma come nella serie A non è semplice adattarsi, capire le strategie, impostare il gioco di squadra: i primi 6 mesi sono di studio reciproco tra lo chef e il team: Poi ci si conosce e si capisce la forza di entrambi e si riesce a fare ristorazione, che in Giappone significa business”.

“Ho seguito gli insegnamenti di Michel Bras, ossia dar voce al territorio che mi circonda, ai produttori locali, alla natura come fonte primaria di ispirazione. Il mio obiettivo è far conoscere al cliente il luogo in cui si trova, dunque non pongo mai il mio ego e la mia personalità davanti alla ricetta”.

“Detto ciò, ci sono tocchi ai quali sono visceralmente attaccato, ad esempio l’olio extra vergine di oliva, che qui faccio arrivare direttamente dalla Calabria dopo averlo selezionato personalmente ogni anno sul posto. Per il resto mi adatto alle produzioni locali, anche perché mi aiuta ad ampliare le conoscenze gustative e professionali, amplia il mio palato e mi dà l’opportunità di ascoltare storie e aneddoti che poi metterò nel mio grande sacco da viaggio, da cui nascono poi le mie ricette”.

Se devo scegliere un ingrediente in particolare che mi ha davvero catturato è il miso tamari ossia una sorta di colatura di miso (pasta fermentata a base di soia e altri ingredienti). Il Tamari viene ottenuto con lo stesso sistema della colatura di alici: molto profumato, sapido e avvolgente, lo uso spesso per dare tonalità e caratteri più intriganti. Ad esempio in un trancio di salmone mi cuit e laccato con questa colatura di miso Tamari perché da sapidità e acidità a una carne – quella del salmone di Hokkaido – grassa e untuosa. E’ una bella bilancia di consistenze, gusti ed equilibri, e amo aspettare che coli goccia dopo goccia, è quasi romantico perché in cucina il tempo è l’ingrediente più prezioso.

“Conciliare la cucina tipica italiana coi gusti giapponesi? La prima cosa che mi viene in mente è la percezione del sale: in Giappone hanno un palato molto più delicato e sensibile alla salinità in generale. Amano raggiungere questo gusto attraverso diversi elementi naturali – alghe essiccate, pelle di pollo disidratata, pesci asciugati al sole, uova di pesce – più che col semplice sale. Saper sfumare la sapidità è una dote molto intrigante perché si incastra perfettamente con gli altri gusti come l’acido, l’amaro, etc… Un altro esempio che mi viene in mente sono le cotture del pesce: venivo da anni in Inghilterra dove il pesce viene servito sempre un filo avanti alla cottura “normale”, mentre in Giappone c’è l’estremo opposto, la regola è sempre stare un filo indietro nella cottura del pesce. Detto ciò, quando elaboro delle ricette non denaturo la mia idea di partenza ma cerco un bilanciamento, perché chi viene da noi ricerca un carattere e un’identità europea”.

“La clientela italiana ed europea vuole assaggiare il più possibile i prodotti di Hokkaido come la selvaggina quando ne è il periodo, o assaggiare prodotti come il bulbe de lyce (bulbi di una varietà di tulipano locale) o i tulipani della spiaggia, mentre il nostro cliente giapponese chiede che ci sia dietro un’identità’ europea, quindi una salsa, un consommè, un pesce in crosta, spezie più mediterranee oppure una tecnica che li faccia viaggiare in Occidente. Un esempio è il filetto di salmone tokisirasu pescato in Hokkaido: due tranci sottili al vapore, laccati col miso tamari e all’interno arricchito con le sue uova (per dare sapidità naturale) e sfoglie di radici per dare consistenza, colore e volume. Poi davanti al cliente viene versata una salsa Bonne Femme, un classico della cucina francese fatta con fumetto di pesce ma al posto del vino bianco la profumo e alleggerisco con un sake locale e succo di barbabietola ridotto”.

“In Giappone c’è adorazione profonda per la cucina italiana. Noto una ‘giapponesizzazione’ della cucina italiana soprattutto nei ristoranti di medio e basso livello. Qui ci sono pochi veri ristoranti italiani, ma sono al top perché selezionano la materia e non cedono a compromessi. Forse mancano più interpreti che trasmettano la vera italianità nel gusto e nella storia…. ma d’altra parte è un po’ un problema globale, basti pensare al sushi mangiato in Italia, forse lo si trova in 4/5 locali in tutta Italia il resto sono adattamenti al mercato e al palato italiano. Lo stesso vale per la cucina italiana in Giappone: in tanti la fanno ma i veri interpreti si contano sul palmo di una mano”.

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