Con quasi mezzo secolo di carriera e 70 anni portati egregiamente, il fiesolano doc Emanuele Pellucci è oggi il decano dei giornalisti enogastronomici della Toscana. E adesso si racconta in un libro
Essere il decano di una particolare categoria – tanto più una sfaccettata e in continua evoluzione come quella cui appartiene – dà spesso il vantaggio sia di godere di un punto di vista privilegiato per osservare ciò che lo circonda da un punto di vista professionale, sia di vedere le umane cose con la giusta dose di distacco e disincanto. Attitudine, quest’ultima, intrinsecamente connessa al lavoro che continua a svolgere. Già, perché anche se porta le sue settanta primavere piuttosto egregiamente, il fiesolano DOC Emanuele Pellucci può essere oggi considerato il decano dei giornalisti enogastronomici fiorentini, e probabilmente dell’intera Toscana.
Cronista di lungo corso – mezzo secolo con penna e taccuino in mano, sia per testate generaliste come la Nazione sia per periodici legati all’enogastronomia – e appassionato conoscitore di vini, Emanuele ha da poco dato alle stampe un volume autobiografico, “Io, Pellucci pellaccia”, in cui intreccia le vicende personali e quelle private. Con la prefazione di un’altra penna tagliente made in Tuscany, peraltro, quella di Stefano Tesi. A Emanuele Pellucci abbiamo chiesto di raccontarci com’è stato svolgere la professione in un contesto così diverso da quello attuale.
Partiamo da una domanda forse scontata, ma imprescindibile: com’era, questo settore, quando hai iniziato?
L’aspetto più evidente che balza agli occhi in quasi 50 anni di attività professionale è che un tempo, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, chi si occupava di vino sui giornali erano appassionati che avevano alle spalle tutt’altra preparazione: pensiamo a Luigi Veronelli, professore di filosofia, o di colleghi come Vincenzo Buonassisi e Adriano Ravegnani, entrambi direttori di riviste specializzate (e autori di prefazioni dei suoi libri sul Brunello e sul Vino Nobile). E ancora Marco Grandini dell’Ansa, Gianni Bonacina, Paolo Monelli, Mario Soldati, e persino l’editore di Civiltà del Bere, Pino Khail. Prima delle guide, è stata proprio Civiltà del Bere a portare avanti un’opera di conoscenza del vino italiano all’estero insieme all’Istituto del Commercio Estero.
Insomma, hai vissuto gli anni pioneristici del giornalismo enogastronomico…
Quando ho iniziato a scrivere nel ’72 sulla Nazione, a occuparci di vino eravamo tre gatti a livello nazionale. E lo facevamo da “generalisti”, non da persone che avevano studiato la materia. Quelli più tecnici erano gli agronomi e gli enologi, mentre noi pensavamo a raccontare storie e personaggi, senza entrare negli aspetti tecnici. Soltanto successivamente si è creata una categoria di giovani giornalisti, formatisi sia attraverso corsi di sommelier che specializzazioni agronomiche. Ha preso così forma una categoria in grado di nobilitare il settore, che a sua volta si è espanso a dismisura. Ancora fino agli anni Ottanta eravamo relativamente pochi, mentre oggi di vino scrivono praticamente tutti.
E’ una situazione tipicamente italiana, o la stessa dinamica si è ripetuta altrove?
La stessa cosa è accaduta sia a livello nazionale che internazionale, non è affatto un caso solo italiano. Ricordo che in Cile, nel 2001, trovai un gruppo di giovani specializzati bravissimi: eppure si pensava a un Paese non ancora all’altezza della comunicazione del vino che c’era in Italia. A livello toscano, invece, credo che il primo a scrivere di vino sia stato Antonio Villoresi, seguito da Enrico Bosi, autore di un paio di volumi sull’argomento. Fu proprio Villoresi che nel ’72 mi chiese di andare con lui ai Falciani alla presentazione della mostra mercato del Chianti Classico. Loro hanno smesso da anni di scrivere, quindi con alle spalle 48 anni di attività mi sa che sono proprio il decano…
Se erano pochi i giornalisti uomini, quante erano le donne?
Donne? Non ce n’erano, all’epoca. A far da apripista in Toscana è stata Patrizia Cantini, che incontrai al Toscanello d’oro di Pontassieve nel 1981. Poi vennero altre colleghe come Marzia Morganti, almeno una trentina d’anni fa.
Come si diventava giornalisti enogastronomici, quando hai iniziato?
Come ho detto, rispetto ai tempi dei miei esordi oggi c’è più preparazione: chi parla di vino lo fa in maniera “tecnica” aggiungendo al racconto dei territori e dei personaggi anche un dettaglio più specifico, mentre noi costruivamo la nostra autorevolezza assaggiando vini in giro per l’Italia e/o il mondo e maturando esperienza sul campo. Credo sia grazie anche alla nostra opera che oggi è aumentato l’interesse intorno al vino da parte di un pubblico più trasversale.
Quali erano le difficoltà con cui ci si scontrava?
Beh, un esempio su tutti: nel ’78 non c’era nessun editore che volesse pubblicare un libro sul Brunello di Montalcino, all’epoca ancora poco conosciuto. Pensa che quando alla metà degli anni Ottanta andai con Giovanni Piscolla e Silvana Arata (all’epoca eravamo insieme alla guida del bimestrale ToscanaVerde) alla Fiera del libro di Francoforte per pubblicizzare i nostri libri, mi fermai presso lo stand di editore francese. Gli chiesi se fosse interessato a un libro in francese sui vini italiani e mi liquidò con una risata: “I francesi – mi disse – bevono solo vini francesi”. Ecco, questo era il contesto in cui ci si muoveva.
Oggi si lavora con lo smartphone, come funzionava quando hai iniziato?
Siamo andati avanti per anni con taccuino, penna e miniregistratori a tracolla. Poi nell’81 a New York comprai un Sony tascabile, che mi è durato molto a lungo. Quando collaboravo con la Nazione scrivevo i testi a macchina (su una Olivetti Lexikon 80) e consegnavo a mano. Per le foto, invece, portavo il rullino allo studio fotografico interno al giornale. Invece con le riviste, tra il ’78 e l’80 si lavorava molto con le diapositive. C’erano poi i “fuorisacco” da dare all’autista del pullman o del treno, e qualcuno del giornale veniva a ritirarli. Oppure si parlava al telefono con gli stenografi per dettare un pezzo.
Tra i colleghi che hai incontrato, ci sono alcuni personaggi da ricordare?
Beh, penso soprattutto agli stranieri: c’era Burton Anderson, il primo americano a scrivere di vino. Aveva lavorato a Londra, e quando nel ’75 andai a conoscere Franco Biondi Santi, fu lui a darmi la fotocopia di un articolo che aveva scritto sul Brunello qualche tempo prima. Quando poi nell’81 scrissi l’edizione inglese del mio libro, chiesi a lui di scriverne la prefazione. Poi ricordo l’inglese Nicholas Belfrage che ho conosciuto a Capezzana negli anni ’80, o il tedesco Jens Priewe che curò l’edizione tedesca del libro. Oppure ancora l’inglese Rosemary George.
Più volte, nella chiacchierata con Emanuele Pellucci, è spuntato fuori il suo libro sul Brunello. Non è un esercizio di autoreferenzialità, però, perché davvero tanti “big” di oggi hanno studiato sul suo volume. A conti fatti, “Pellaccia” Pellucci è stato il primo italiano a conquistarsi di diritto la legittimità a confrontarsi sui palcoscenici internazionali. Fu lui – si scopre tra le pagine del volume autobiografico – a portare a Copenaghen ben 22 etichette di Brunello, a un convegno. Oppure a proporre una degustazione di 12 vini toscani in Cile nel 2004 (due per ognuna delle 5 DOCG allora presenti più 2 IGT), evento che richiamò oltre 100 tra giornali e televisioni. In fondo, Emanuele ha partecipato ad oltre 90 concorsi internazionali in 20 Paesi. E non ha intenzione di fermarsi.