Guai a chiamarlo spezzatino: per le vie di San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, la tradizione popolare dello stufato alla Sangiovannese si rinnova anno dopo anno all’insegna dell’aroma – speziato e inebriante – del “drogo”, e di un palio creato ad hoc
Chiamarlo spezzatino significa inimicarsi a vita un’intera comunità, quella di San Giovanni Valdarno (Arezzo). Già, perché le differenze tra un “comune” spezzatino e lo stufato alla Sangiovannese sono proprio ciò che lega questo prodotto tipico toscano ai suoi abitanti, al punto che questi ultimi hanno pensato di dedicare al loro piatto principe un palio ad hoc. L’appuntamento è arrivato alla sua sesta edizione, e quest’anno ha avuto il Forchettiere in giuria insieme a Laura Tabegna (Nazione), Roberta Perna (Acquabuona.it), Raffaella Galamini (Puntarella Rossa), Ivana Zuliani (Corriere Fiorentino), Giacomo Guerrini (Radio Toscana) e Rebecca Bruni (ToscanaDove), insieme al responsabile locale Slow Food Gianrico Fabbri, il sindaco Maurizio Viligiardi, il camarlengo Ennio Massini, il presidente della Pro Loco Silvio Del Riccio e il conduttore, il critico Leonardo Romanelli.
A sfidarsi quest’anno sono stati gli studenti della scuola alberghiera “Vasari” di Figline Valdarno, seguiti come tutor dai partecipanti dello scorso anno. Delle sei versioni proposte – tutte apprezzabili, alcune forse troppo pepate, altre troppo unte, altre ancora con una cannella prevalente rispetto alle altre spezie – alla fine ha vinto quello di Linda Brandi, che (nel mix di voti tra giuria tecnica e popolare) ha superato quelli di Filippo Ensoli, Luca Piccolo, Alessandro Baglioni, Tiziano Fontani e Alessandro Fratini.
Il palio ha dato modo di approfondire qualche informazione sullo stufato, le sue origini e la sua preparazione, dal momento che così com’è viene preparato solo in questa cittadina del Valdarno: il segreto della ricetta sta nella miscela di droghe utilizzate, chiamata drogo. Un nome che agli appassionati di Game of Thrones evocherà certamente qualcosa, ma che in Valdarno indica quel mix che viene proposta da un solo negozio del paese – il Pratesi, come ci ricorda qui Leonardo Romanelli – ma che ogni famiglia di stufatari modifica nella composizione e nelle giuste quantità di ogni singola spezia in base all’esperienza culinaria maturata in generazioni tra i fornelli.
La ricetta classica – della quale offriamo qui una versione in rima – vuole che la carne di vitello sia quella del muscolo della zampa anteriore, in modo da conferire allo stufato alla Sangiovannese un sapore ben diverso da quello di un “comune” spezzatino. Nella cottura si utilizzano anche altri alimenti tra cui vino, bucce di limone, cipolla, chiodi di garofano, noce moscata e ossa di vitello. Sulle origini dello stufato alla Sangiovannese si accavallano varie leggende, a partire dal quella del miracolo dell’anziana Monna Tancia, che durante la peste del 1478, pregò la Madonna di poter avere un po’ di latte per sfamare il nipotino, e ottenne il dono. La notizia si sparse e accorsero persone da tutta la Toscana, così fu deciso di erigere un oratorio per accogliere i fedeli, sfamati con una grande quantità di carne frollata con spezie ed aromi. Un’altra ipotesi, non così lontana da quella che portò alla nascita del peposo dell’Impruneta (ne parliamo qui) racconta che durante il XX secolo, un operaio della Ferriera – storica azienda metallurgica del paese – arruolatosi nell’esercito, prestando servizio come cuoco nella campagna libica, imparò a cucinare la carne con le spezie e al suo rientro ripropose la ricetta in famiglia e in fabbrica.