All’Osteria del Borro, a San Giustino Valdarno, lo chef Andrea Campani si fa artefice di un menù di territorio, di sostanza, legato alla scelta “autarchica” della tenuta di Ferruccio Ferragamo
In tempi che hanno stravolto il mondo della ristorazione e dell’ospitalità, insieme all’intero tessuto economico mondiale, occorre saper reinventare certi meccanismi. Un processo che in alcuni casi è partito con la pandemia, in altri casi è frutto di una sapiente programmazione e di scelte ponderate. La vicenda dell’Osteria del Borro, a San Giustino Valdarno, appartiene al secondo tipo.
È qui nella tenuta di proprietà di Ferruccio Ferragamo, infatti, che lo chef Andrea Campani guida un processo di autarchia produttiva che oggi conta su una produzione interna di farine, olio (con la recente apertura di un frantoio in loco), verdure (su 4 ettari di terreno), aromi, persino api e vacche di razza Chianina. Non solo: il Borro produce da sé quanto serve per l’elettricità – ha inoltre un carbon footprint negativo, ossia produce più ossigeno dei gas serra generati – e per i materiali, oltre a impiegare maestranze locali. In altre parole, fa suo l’imperativo del non sfruttare il territorio.
Ma cosa c’entra tutto questo con la cucina? C’entra, eccome. Perché in attesa di tornare a vestire i panni del locale di ispirazione gourmet, l’Osteria del Borro sta vivendo una sorta di parentesi che lo avvicina allo spirito del Tuscan Bistro di Firenze. La “osteria”, insomma, è più simile all’idea canonica che questa parola suggerisce, scostandosi un po’ dal concetto di fine dining. Attenzione, però: con lo chef Andrea Campani a guidare questo processo, la semplificazione del menù non si traduce affatto in una riduzione né della qualità né del gusto. I riflettori sono puntati sull’essenziale, sul sapore dei piatti tradizionali, sulla valorizzazione della materia sic et sempliciter, come mostrano le immagini di Luca Managlia.
Un esempio? Gli gnudi di ricotta di pecora e spinaci con tartufo nero autunnale e una fonduta di pecorino giovane: un piatto capace di tirar fuori la parte vegetale ben in equilibro con quella casearia, schivando agilmente il rischio di una prevalenza di quest’ultima che avrebbe sbilanciato la portata.
Discorso simile per la guancia di manzo del salumificio Mannori di Prato, cotta a lungo nel Sangiovese del Borro – tenuta tre ore insieme all’uva, più altre dodici di cottura – con bietole e un purè di patate e rafano. C’è territorio, ci sono sapori chiari e c’è il dettaglio del rafano nel purè a donare quella sfumatura che in fondo mostra la zampata dello chef.