La prima volta che siamo venuti a provare la Gucci Osteria, ai fornelli c’era “solo” la brava sous chef di Massimo Bottura. Adesso vi abbiamo trovato Karime Lopez che segue la propria idea di cucina. E lo fa piuttosto bene
C’è sempre un buon motivo, per tornare alla Gucci Osteria di Firenze. Stavolta è l’aria di novità che si respira in quest’angolo di piazza della Signoria, con l’ampliamento della sala del ristorante stellato avvenuto lo scorso dicembre, nell’ottica di un riordino complessivo degli spazi completato con l’apertura del cocktail bar Giardino 25.
La location all’interno del palazzo che ospita il museo Gucci resta molto elegante, e addirittura guadagna in fascino grazie alla valorizzazione di alcuni dettagli di stile come le porcellane in tre tonalità, frutto di una collaborazione esclusiva con Richard Ginori, che rimandano – così come la foggia dei tavoli e delle sedie – alla piacevolezza di una casa dal sapore antico.
La stessa aria di casa si ritrova anche sui piatti della chef messicana Karime Lopez, grazie a dettagli come la schiacciata, croccante e soffice come nei ricordi d’infanzia, o particolari scelte come il brodo caldo di cipolle alla toscana, che nella sua semplicità sblocca memorie d’antan. E cosa dire del vermouth, dal nome italiano (“Baldoria”) ma preparato in un locale parigino inserito tra i migliori 50 bar del mondo.
Tenendo fede a un format di successo inaugurato prima del Covid, la cena alla Gucci Osteria prende la forma di un viaggio intorno al mondo. Un tour che parte dall’Asia, in omaggio allo chef nipponico Takahiko Kondo, compagno di vita e di lavoro di Karime. Si inizia così con “Ma che freddo fa”, un Chawanmushi a base di uovo CBT con porcini, brodo di cozze e vongole, gambero rosso e tartufo nero di San Miniato. Con tanti sapori racchiusi in una ciotola, il rischio era che uno prevaricasse tutti gli altri o – peggio – che si annullassero l’un l’altro. Invece il risultato è un piatto complesso, sì, ma decisamente gradevole al palato. Soprattutto nell’abbinamento con l’Eclettico del Paglione, un vino macerato del foggiano.
Dal Giappone ci si sposta in Messico, dalle mani di Taka ci si affida a quelle di Karime. La Tostada di mais viola che sovrasta la palamita marinata su avocado cremoso, ricoperta – invece che appoggiata, come da tradizione – da un velo di mais croccante con carpaccio di ravanelli, gocce di avocado e crema di hibiscus. È un piatto iconico della chef, e se dal 2018 a oggi non è cambiato quasi di una virgola (giusto il mais, da giallo a viola) un motivo ci sarà. E probabilmente è questo: va benissimo così com’è.
L’esperienza alla Gucci Osteria prosegue con un classico della cucina di mare, il merluzzo. Che qui prende il suo nome scientifico (Gadus Morhua), ma scritto tre volte perché la stesso ingrediente viene utilizzato per tre preparazioni: il filetto, il brodo (con pomodoro secco, origano e basilico) e la panatura, realizzata con le parti meno nobili del merluzzo in ossequio al credo no waste di Massimo Bottura di non buttare via niente e usare al massimo tutta la materia prima a disposizione. La completa una brunoise di finocchio e sedano, con persino quest’ultimo che trova una sua precisa collocazione, e su tutto l’insieme del Gadus Gadus Gadus spicca una piacevole nota citrica.
Dal pesce alla carne, il viaggio intorno al mondo sta per concludersi con un ritorno alla Toscana solo apparente, perché nell’Abbraccio di chianina il diaframma cotto al sangue e ben affumicato si accompagna a una serie di salse (clorofilla, riduzioni di aceto balsamico di Modena, di fagioli toscani e dell’Aji Amarillo, un peperoncino peruviano qui reso dolce), creando un ponte ideale tra l’Italia e il Sudamerica. L’affumicatura fa da sfondo, costante ma non invasivo, al piatto: furba la scelta del diaframma, che si rivela il taglio più indicato a una portata del genere.
Dopo un predessert a base di diverse consistenze di agrumi con bergamotto, gelato di yogurt greco e kombucha di mandarino, il dessert – Riccio del bosco – suona come un omaggio al Montblanc, impreziosito da un sorbetto alle pere e rum bianco e completato al tavolo con una riduzione di crema di cassis per dare al piatto la parte acida.
Finito? Macché. Anche se a proposito del partire per un lungo viaggio Irene Grandi ci consiglia di “portare con te la voglia di non tornare più”, in questo caso il giro intorno al mondo della Gucci Osteria comprende anche l’ultimo atto, ossia il biglietto di ritorno. La sorpresa a fine cena è il marchio di fabbrica di Massimo Bottura, un piatto di tortellini con parmigiano 24 mesi e latte d’affioramento, servito con un calice di lambrusco. Ed è così che si torna a casa, pervasi da quel senso di comfort che si prova quando si rientra agli affetti domestici.
Chiamatela cucina fusion, se volete, ma – tranne nella chianina, dove le contaminazioni sono interne al piatto – secondo noi ciò vale a livello di menù e non di singola pietanza. Niente connubi forzati o piatti a chilometraggio illimitato: ogni piatto di Karime Lopez è stato infatti funzionale al proprio scopo, nell’ottica di un viaggio tra Asia, America ed Europa rispettoso di materie prime e tradizioni. C’è cuore e concretezza, nella cucina di Karime e Taka. La prima volta che siamo venuti a provare la Gucci Osteria, ai fornelli c’era la brava sous chef di Massimo Bottura. Adesso vi abbiamo trovato Karime Lopez che segue la sua strada. E lo fa piuttosto bene.