venerdì 19 Aprile 2024
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Michele Tamasco, da Firenze all’Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Il giovane pizzaiolo fiorentino Michele Tamasco  è “emigrato” in Islanda per portare l’arte della pizza napoletana alle porte del Polo Nord. Adesso, dopo mesi passati a temperature polari, insegna un nuovo stile. Ecco la sua storia

Michele Tamasco, da Firenze all'Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Se l’ossimoro non fosse una figura retorica ma un luogo geografico, probabilmente sarebbe l’Islanda. La contraddizione è natura essenziale di questa terra, ghiacciata in superficie e in ebollizione nel sottosuolo, quasi spopolata e al tempo stesso estremamente moderna e vitale. Allo stesso modo, se l’ossimoro non fosse un tocco stilistico letterario ma una persona, potrebbe essere Michele Tamasco. Al primo sguardo può sembrare un musicista appena sceso dal  palco di un concerto dopo la propria esibizione, ma appena gli si parla di cucina e soprattutto di pizza acquista la serietà e la professionalità di un profeta con una missione: portare la qualità italiana ai confini del mondo.

Michele Tamasco, da Firenze all'Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Forse è proprio per questo che i due i due fondatori islandesi di Flatey Pizza,  Hauk and Brinjar hanno fortemente voluto Michele Tamasco a Reykjavik per il loro progetto. Perché lui è come questa terra, freddo e caldo al tempo stesso e allo stesso modo imprevedibile. Abbastanza da lasciare tutto e partire per fare pizze alle porte del polo Nord.

Di solito  quando si lascia tutto per scappare su un isola la si sceglie tropicale non artica…da dove viene questa scelta? Cosa ti ha portato in Islanda?

Beh in effetti prima di approdare su quest’isola di roccia lavica e tanto ghiaccio – esordisce Michele Tamasco – avevo pensato agli States. La California era il mio sogno: il sole, le palme, il mare.. Ma è stato piuttosto deludente almeno dal punto di vista enogastronomico. Il mercato è saturo, la qualità viene messa spesso in secondo piano e le troppe imitazioni di piatti italiani confondono il palato e influenzano i gusti. Qui ho trovato una situazione completamente diversa. Infatti i due soci fondatori dopo aver scoperto a New York cos’è veramente la pizza italiana hanno deciso di intraprendere un vero e proprio tour mondiale di scoperta di questa delizia, con tappa finale a Napoli, dove hanno fatto un corso. Tornati in patria con altri 3 soci hanno deciso (vista la pessima offerta  islandese) di aprire una vera pizzeria all’italiana che usasse farine e condimenti provenienti dal Bel Paese e sempre freschissimi, anche affrontando gli inevitabili costi maggiori necessari per avere pomodoro San Marzano e Fiordilatte. Quando mi hanno chiamato per un colloquio in verità avevo già un po’ la pulce all’orecchio su questa parte di mondo, in quanto la sorella del mio miglior amico Giovanni già da un paio di anni mi suggeriva di guardare in questa direzione.

Michele Tamasco, da Firenze all'Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Ci sono pizzerie che non cercano di imitare la cucina italiana, anzi, cercano di innalzare il livello portando un po’ di Italia all’estero. Come hai trovato i clienti islandesi?

La situazione qui è completamente diversa da tutti i Paesi che ho visitato. Il loro palato – racconta Michele Tamasco – non è abituato a gusti semplici ed equilibrati come i nostri, basti pensare che uno dei piatti tipici di qui sia lo Skata che altro non è che pesce lasciato a macerare all’aperto..ai limiti del putrefatto. Negli ultimi decenni hanno però subito molto l’influenza statunitense, grazie ad una base americana che ormai da più di un decennio è presente sul territorio.

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E loro cosa ne pensano della pizza Italiana? È diversa da quello a cui sono abituati?

La loro pizza per “tradizione” è quella di una nota catena americana – spiega Michele Tamasco – ma da quando abbiamo aperto 5 mesi fa, dopo circa 45.000 pizze fatte, ormai anche loro stanno abbandonando la pizza croccante e fin troppo farcita. Stiamo dando vita a una piccola rivoluzione in questo settore, cambiando la mentalità da quantità a qualità, e di questo sono davvero orgoglioso. Questa mancanza di preconcetti mi offre un po’ di più la possibilità di osare e sbizzarrirmi, tentando nuove infinite combinazioni che qualche volta potrebbero non convincere un purista italiano…almeno non prima di assaggiarle!

Michele Tamasco, da Firenze all'Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Il tuo rapporto con la pizza è di amore viscerale, tant’è che appare anche tra i tuoi numerosi tatuaggi. Da dove nasce questa passione?

Il mio amore per la pizza – esordisce Michele Tamasco – nasce presto ma si sviluppa tardi e per  necessità. Nonostante sia sempre stata presente nei miei 28 anni di vita  provenendo da una famiglia del sud, prima non facevo questo mestiere. Nella mia famiglia la pizza è sempre esistita: il primo ricordo che ho di mia nonna è la sua schiena curva a stendere pizze e preparare i condimenti in cucina, ma non credevo fosse la mia strada. Ero convinto di poter fare della musica un lavoro e come hobby lavoravo (esatto, non il contrario) ma purtroppo o per fortuna con la musica nonostante molte soddisfazioni non riuscivo a vivere, e allora ho deciso di riversare la necessità di essere creativo in un mestiere che già avevo vissuto tramite la mia famiglia, le mie zie, le mie cugine. Iniziai con un semplice corso a Scandicci, niente di ufficiale, una specie di introduzione, ma fu la scelta più giusta della mia vita. Dopo quella esperienza e un periodo di studio matto e disperatissimo, ho deciso di farne un lavoro. Fortuna volle che piacqui al pizzaiolo napoletano Eugenio Di Blasio e al fratello pasticcere Domenico, che mi introdussero poi alla pizza che più è apprezzata nel mondo, la verace, quella che proponiamo anche noi da Flatey.

Michele Tamasco, da Firenze all'Islanda per insegnare la pizza alle porte del Polo Nord

Raccontaci i sapori della cucina islandese! Hai mai pensato di inserire alcuni dei sapori di questa terra nelle tue pizze?

Non sono un grande fan del pesce – racconta Michele Tamasco – qui invece è ovunque, così come la “cultura culinaria” americana. L’azzardo più grande per me è riuscire a trovare un giusto equilibrio fra due culture tanto diverse e apparentemente inconciliabili. Abbiamo appena iniziato la Battle of the Bakers, una specie di sfida tra pizzaioli del ristorante, dove ho presentato la sfida più audace per il momento: una rivisitazione di un classico americano/islandese ma col gusto, l’equilibrio e la raffinatezza che distingue la cucina italiana. Si tratta di una pizza bianca con fiordilatte e rigatino a fette, crumble di cipolla e una mostarda al mango e ananas. Vuole essere una reinterpretazione della tristemente nota pizza con l’ananas americana, ma in un concetto che si avvicini più al formaggio con le confetture o col miele nostrani. Mi piace l’idea di pensare fuori dagli schemi e senza pregiudizi per innovarci ma ricordando sempre quali sono le nostre radici culinarie. Per ora sono in testa alla classifica ma confido nella creatività dei miei colleghi, specialmente del mio coetaneo apprendista Sigurvin che in soli tre mesi è riuscito a raggiungere un livello di professionalità che ha pochi eguali. Sono davvero fiero di lui e del mio operato.

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Da quando è iniziata la tua avventura islandese tieni una specie di video diario su YouTube, dove racconti con un filo di umorismo le difficoltà e le soddisfazioni della tua nuova vita. Nel primo parli del peso che l’offerta monetaria ha avuto nella tua scelta. Eppure immagino che avrai pensato di rientrare in Italia…cosa pensi ti riservi il futuro?

Se ho pensato di tornare in Italia? Certo che si – spiega Michele Tamasco – specialmente i primi due mesi, io e la mia ragazza siamo arrivati in pieno inverno, vivevamo in una stanza piccola piccola nel cuore della downtown di Reykjavik, e abbiamo affrontato tempeste di neve, pioggia gelide, venti a 60 km/h tutto rigorosamente a piedi. Sono stati i due mesi più freddi e tosti della mia vita, della nostra vita, soprattutto se contiamo che per 32 giorni ho lavorato 12 ore ininterrotte e senza pause per riuscire a coprire le numerosissime richieste di pizza circa 350/400 pizze al giorno. Ma è proprio per questo che ho tenuto duro, sono poche le soddisfazioni per un pizzaiolo, è davvero un mestiere che ti leva energie e tempo, ma vedere tutti i giorni a pranzo e a cena la fila di ore per mangiare quella che è la tua pizza è una soddisfazione che ripaga a pieno gli sforzi. In Italia lo stipendio è ai minimi storici per un lavoro che ormai è troppo generalizzato. Noi non siamo solo pizzaioli, almeno qui. Siamo delle rockstar, e credo di aver trovato la mia dimensione. Su instagram sono sempre più le persone che apprezzano le nostre pizze, chiedono consigli, vorrebbero imparare questo mestiere. Sigurvin, il ragazzo a cui sto insegnando tutto quello che so, è un’ottima ragione per non andarmene da qui. Sono in missione, come dicevano i blues brothers… Insegnare qui e poi altrove è la mia vocazione.

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