L’ultima volta che siamo stati a Berlino ne abbiamo approfittato per una rapida visita al Museo dei cibi disgustosi. Una trappola per turisti? Sì, probabilmente, sotto molti punti di vista. Del resto non è un caso se è stato realizzato a pochissima distanza dal Checkpoint Charlie, magari un tempo emblema di un periodo buoi del secondo dopoguerra ma oggi diventata un’altra tourist trap di prim’ordine. Ha un vantaggio, invece: consente a chi non ha mai assaggiato un insetto (grilli, bachi di diverse grandezze e consistenze, ecc…) di farlo, togliendosi la curiosità.
Un museo del genere – che insieme al biglietto fornisce un sacchetto per il vomito, strizzando l’occhio al marketing – non poteva prescindere da un disclaimer, magari scontato per chi ha fatto delle papille una professione, ma non così per chi non è addetto ai lavori. In sintesi, si spiega che il disgusto è un’emozione umana fondamentale e non è universale. Ciò che è delizioso per una persona può essere ripugnante per un’altra.
Il museo presenta oltre 90 reperti alimentari provenienti da tutto il mondo come il Balut del sud-est asiatico, l’Hákarl islandese (definita dal compianto chef Antony Bourdain “la cosa più disgustosa mai assaggiata”), il Surströmming svedese o lo Shirako (sperma di merluzzo consumato in Giappone), da guardare e in alcuni casi anche annusare o toccare. Inoltre, un’intera parete è allestita con carne degli animali più inconsueti (foto in alto).
Ma a stupirci non è stato tanto il pipistrello né la tartaruga da fare in brodo, e forse nemmeno le escamoles, le larve delle formiche arboree mangiate in Messico. La vera sorpresa che abbiamo trovato, passando in rassegna le teche del Museo dei cibi disgustosi, è che almeno un terzo dei cibi presenti li abbiamo assaggiati almeno una volta, nel corso della vita. È il caso dei formaggi francesi più “odorosi” (dal Camembert al Roquefort) o delle creste di gallo usate in Toscana per il cibrèo o come ripieno della pasta fresca.
E se probabilmente ben pochi in Italia avranno assaggiato la zuppa di nido di uccello, prelibatezza piuttosto costosa in Cina, oppure il pene crudo di un toro (foto in basso) o il Cuy (porcellini d’India arrostiti, tipici del Sud America), qualcuno in più avrà invece avuto l’opportunità di assaggiare il Casu Marzu sardo – il formaggio con all’interno i bachi vivi (qui il video) o la testina d’agnello.
In linea con un certo relativismo gastronomico, nella categoria “cibi disgustosi” finiscono poi le escargot (presenti nella cucina francese, ma anche in piatti italiani come le chiocciole alla sestese) e le rane, non così insolite da reperire nelle trattorie di alcuni territori o in qualche fine dining aperto alle sperimentazioni.
E che dire degli orsetti gommosi, le caramelle che possiamo trovare con grande facilità a ogni sagra di paese? Sono ricavati dal collagene e possono essere sono composti da gelatina animale: in pratica, si prendono scarti (cartilagini e ossa di maiale e manzo, genitali, zoccoli, unghie, ecc…) e si fanno bollire per ore ed ore finché non si produce uno scarto gelatinoso e colloso, che viene persino utilizzato a caldo come colla per i libri.
Personalmente, abbiamo assaggiato il Durian, un frutto del sud est asiatico dall’odore particolarmente intenso (è vietato portarlo in aereo, ad esempio, o cucinarlo in spazi non abbastanza areati) e qualche bacarozzo, oltre al Vegemite. Ma l’unica cosa che davvero non siamo riusciti a tenere in bocca è forse la meno “disgustosa” di tutto il museo, ossia il Salmiakki o liquirizia salata.