martedì 23 Aprile 2024

La tavola di Papa Urbano VIII, il Pontefice del record dei nove giubilei

Iniziato il giubileo, continua il nostro viaggio nella storia dei papi e del loro rapporto con la buona tavola: dopo Clemente VII, Bonifacio VIII, Martino IV, la Papessa Giovanna, Pio II e Martino V, ora tocca a Papa Urbano VIII, il Pontefice del record dei nove giubilei   

Urbano VIII 1

Questo Papa fiorentino, mecenate, colto, amante del bello e dell’arte, ha lasciato esaltante traccia di sé nella Roma barocca del Bernini, sulle fontane trionfanti di marmi e di acqua, nei coinvolgenti colonnati di S. Pietro, nei palazzo imponenti ornati di stemmi, sarà ricordato anche come quello che, per poter regalare ai posteri tanta gloriosa memoria, adoperò i Giubilei come “bancomat”: nei suoi vent’anni di pontificato ne indisse ben 9, di cui uno…a distanza. Per coprire le spese di marmi, bronzi, manovalanza, architetti e artisti, attinse beatamente ai soldi delle offerte dei pellegrini che da tutta Europa arrivavano a Roma col desiderio della pontificia perdonanza. Urbano VIII era nato in una famiglia di mercanti fiorentini di stoffe, sete e mercanzie varie che aveva fatto fortuna e aspettava il momento giusto per fare il salto di classe, come del resto, avevano fatto altri suoi concittadini. Il giovane Maffeo – vispo, astuto, prestante – sembrava la pedina giusta. Affidato a un potente alto prelato che gli insegnò a seguire la vocazione, dopo la laurea all’Università di Pisa, si distinse come nunzio apostolico a Parigi. Infine Cardinale, per volontà di Pio V, si avviava così a salire al Soglio di Pietro. In realtà Maffeo non si chiamava Barberini ma …. Tafani.

Urbano VIII

Ohimè, il nome di famiglia rimandava a un insetto pungente simile ad una grossa mosca che succhia il sangue degli animali, non certamente adatto a tanto alte aspirazioni. Perciò si decise di cambiarlo in Barberini, alludendo al paesino di Barberino val di Pesa, tra Firenze e Siena, di cui gli avi erano originari. Dallo stemma, destinato a diventare nobiliare, furono cacciati gli orridi tafani e si dispiegarono operose melliflue api, disposte a mo’ di gigli di Francia, souvenir degli apostolici trascorsi parigini. Dunque, con tutte le carte in regola, comprese la armi di famiglia pronte ad essere scolpite, incise, dipinte, ricamate ovunque Maffeo ormai Barberini, si preparò con un conclave falcidiato dalla malaria (in cui morirono 5 cardinali e 40 conclavisti) sia pur febbricitante, a diventare 253º successore di Pietro il 26 settembre 1632. A questo punto, come uno sciame di api, i familiari che tanto lo avevano sostenuto in quest’avventura arrivarono famelici a Roma, pronti ad accaparrarsi cardinalati, feudi, titoli nobiliari e soldi, tanti soldi. Appena rimesso in salute, Urbano VIII dette il via a tali goderecci festeggiamenti da richiamare alla memoria dei romani i bei tempi di altri due gaudenti Papi fiorentini Leone X e Clemente VII. Come i suoi due predecessori concittadini, Urbano amava le feste e i conviti, le baldorie e la buona tavola a cui, però, aggiungeva un alone di intellettuale godimento con la lettura delle sue rime, ispirate allo stile dei grandi classici come Píndaro, Catullo e Ovidio, purgati degli erotici contenuti e sostituiti da ecclesiastici messaggi di valore morale. Si circondò di poeti amici, come Chiabrera e Ciampali che due volte all’anno faceva godere loro la salutare verde quiete di Castel Gandolfo. E sono proprio gli appunti buttati giù senza pretese da un attento credenziere a lasciarci le memorie di come e di quando si mangiava alla corte di Papa Barberini, in vacanza nella campagna romana. Lasciato il festante clima estivo di Roma, il papa e la sua corte, si avviarono verso Castel Gandolfo, con un viaggio che durava due giorni, con varie soste in cui ci si rifocillava con ampie bevute di vino dei Castelli. Intanto, a Castel Gandolfo erano da giorni arrivati il maestro di casa, i cuochi, lo scalco, i bottiglieri, i panettieri, i coppieri, l’elemosiniere ma anche il confessore e il medico segreto, affinché tutto fosse in ordine per accogliere il Santo Padre e il suo poetico seguito. L’arrivo della corte pontificia era annunciato dallo scampanio a festa di tutte le chiese dei dintorni e dallo scoppio di mortaretti. Finalmente, preceduta dalle guardie svizzere impennacchiate, arrivava la carrozza del Papa tirata da sei cavalli!. Grazie all’intenzione di Urbano VIII che provvide al restauro di questa vecchia residenza nobiliare, tutt’oggi Castel Gandolfo è meta delle vacanze estive dei pontefici.

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II menu che ci racconta il credenziere erano ricchi e vari e non prevedevano mai meno di dieci portate! Pranzi all’insegna di poetiche ispirazioni ma anche di vigorosi appetiti e stomaci a prova di bomba: la tavola di Urbano VIII era quella di un nobile di antica schiatta, abituato ai piatti d’argento siglati dalle api (ex tafani…) di famiglia, pronti ad accogliere saporiti antipasti di salami, fichi, melone, burro e ricotta freschissima. Poi, come usava sulle tavole toscane, appariva una sostanziosa minestra di pane o verdure col riso o legata con uova appena scodellate delle galline del pollaio papale. Seguivano i pasticci caldi, i colli di cappone ripieni con vari intingoli. Arrivavano poi i lessi con capponi in bianco e fette di salame e foglie di lattuga, ma anche petto di vitello guarnito di fiori freschi. Finiti i lessi, si dava il via agli arrosti che potevano variare dal cappone alla mongana (vitella di latte) confettati con arance amare e limoncello. Qualche volta, perché non rimanesse un languorino, si ricominciava con, lessi e poi con del vitello stufato accompagnato dai carciofi. Con una buona torta bianca, qualche volta ripiena di formaggio provolone, ci si avviava alla conclusione del pranzo. Frutta di stagione, con un tocco di cacio, segnavano il termine della golosa tenzone! Naturalmente gli appunti fanno notare come si rispettassero, nella mensa papale, rigorosamente, le vigilie ed i giorni di magro. La carne era sostituita dal pesce, prima lesso, poi grigliato ed infine fritto. Sua Santità gradiva molto anche le uova: le preferiva “al piatto alla francese” o “sperdute”. Anche il pane per Urbano VIII era quello speciale detto “papalino” bianco e soffice. Per gli altri bastava quello “basso” o “casereccio”. Questa era l’aurea quotidianità a tavola dove il brindisi era fatto con l’ottimo vino dei Castelli. 

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Il cibo fu protagonista anche nell’evento che segnò un balzo avanti nell’escalation della famiglia Barberini, il matrimonio tra Taddeo, nipote del Papa con Anna Colonna. Con questa unione gli ex Tafani si imparentarono con la più antica progenie dell’aristocrazia romana. La cerimonia, celebrata con grande pompa a Castel Gandolfo, permise agli augusti ospiti di gustare il meglio delle cucine papali, con vini sceltissimi, musiche ed epistolari letti con ispirati sentimenti dai poeti amici del papa. Dunque tra un Giubileo e l’altro , le “purghe” a Castel Santangelo ingentilite dalle poetiche letture, e il desiderio di completare il suo marmoreo sogno urbanistico, e le beghe dei parenti sempre a caccia di soldi e potere, Urbano VIII trascorse i suoi vent’anni di pontificato, mentre l’Europa era scossa dalla Guerra dei Trent’anni. Il 23 luglio 1644 rese l’anima a Dio, non rimpianto dai Romani che vessati dalle ben 63 tasse (dal pane al vino…) quando non bastavano i soldi del Giubileo, per bocca di Pasquino dissero:

“Urbano VIII dalla barba bella
Finito il Giubileo, impone la gabella”.

Forse morì con sulla coscienza il peso della condanna inflitta al concittadino Galileo Galilei, di cui all’inizio fu un grande estimatore. Dopo un lungo interrogatorio in cui pare che il Papa, per il nervosismo e il disagio si mangiasse le unghie, lo costrinse con un “rigoroso esame” (leggasi tortura) ad abiurare. 

La ricetta: Minestra di farro
(Dal ricettario del gesuita fiorentino Francesco Gaudenzio, 1705)

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Capalo minutamente e lavalo con acqua tiepida: per 10 persone una scodella e mezza scarsa (di farro) mettila a cuocere con brodo mediocre caldo e grasso: anderai aggiungendo brodo a poco a poco e l’anderai qualche volta rivoltando con un cucchiaio di legno e fai che bolle adagio, senza fiamma e quanto più tempo, li darai di cottura sarà meglio. Avverti però che vuol bollire almeno tre ore e mezza e quando ti parrà che sia a cottura, batti un poco di lardo sottilmente che non sia rancioso e fattolo sottilmente squagliare in un tegame, lo colerai sopra detto forno e nel finire ci metterai ova e cascio dolce e se vorrai un poco di colore con agro.

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