Prendete un ristorante qualsiasi, in una città qualsiasi. Spogliatene il menù di ogni tipicità regionale e qualsivoglia creatività, depurate la carta di ogni trend gastronomico negli ultimi 40 anni. Otterrete un menù ai minimi termini culinari. Altro che essenza della ristorazione: una neutralità assoluta che pone il locale fuori dal tempo e dallo spazio
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai in una cucina oscura
‘che la via del gusto era smarrita”
Prendete un ristorante qualsiasi, in una zona qualsiasi di una città qualsiasi. Adesso spogliatene il menù di ogni tipicità regionale e qualsivoglia creatività da parte dello chef, depurate la carta di ogni tendenza gastronomica che sia mai transitata in Italia negli ultimi quarant’anni. Otterrete un menù magari non malvagio, ma ai minimi termini culinari. Può sembrare una valutazione negativa, ma per certi versi è un’esperienza gastronomica interessante, non fosse altro da un punto di vista di analisi metodologica della ristorazione: il protagonista di questa storia avrebbe potuto trovarsi nella Pordenone degli anni Ottanta come a Brindisi negli anni Novanta, oppure a Termoli nel Duemila o a Rovigo non più tardi di due anni fa, e non se ne sarebbe accorto minimamente. L’unica differenza quel viaggiatore l’avrebbe trovata nei prezzi, in lire fino al 2002 e in euro da quella data in avanti. Il resto – dal menù allo stile – sarebbe stato identico a quello che il cliente avrebbe trovato nel ristorante scelto per festeggiare la prima comunione del figlio o la laurea, così come quello in cui sarebbe invece capitato durante un viaggio in una città mai vista prima di allora.
Noi l’abbiamo scovato lungo i viali di circonvallazione a Firenze, ma le istruzioni per trovare questo locale sono tutto sommato semplici: prendete un ristorante qualsiasi, in una zona qualsiasi di una città qualsiasi. Adesso spogliatene il menù di ogni tipicità regionale e qualsivoglia creatività da parte dello chef, depurate la carta di ogni tendenza gastronomica che sia mai transitata in Italia negli ultimi quarant’anni. Insomma, niente piatti di pesce particolari o crostacei che possano rivelare la vicinanza con la costa né selvaggina che possa tradire aderenze con ruralità montagnose, né tantomeno polente o sfiziosità di vario genere. Niente cucina molecolare né strizzate d’occhio al mondo vegano o crudista, niente scomposizioni o sottovuoti, bando a polveri, creme, emulsioni, riduzioni, concentrazioni, macerazioni, abbattimenti, cotture a bassa temperatura e così via. Niente che faccia seppur vagamente intuire il nome dello chef, la sua formazione o la sua provenienza geografica: la sublimazione del low profile gastronomico, insomma.
Otterrete un menù magari non necessariamente malvagio, ma di certo ai minimi termini culinari. Altro che essenza della ristorazione, per carità: nel posto che vi stiamo aiutando a delineare trovereste una neutralità assoluta che pone il locale fuori dal tempo e dallo spazio. Tralasciando l’ordinarietà del concept stesso del menù – quel “primi piatti della casa” mi riporta indietro a trattorie di campagna e pruriti adolescenziali – e le fin troppo semplici traduzioni in inglese, pagina dopo pagina si torna a voci della carta che si condensano in massimo tre o quattro parole: risotto al sugo, punto e basta. Altro che nomi da due righe a piatto, descrizioni accattivanti, iperboli semantiche per aumentare la salivazione, artifizi stilistici per raccontare ciò che si sta per assaggiare. Macché. Impiattamenti creativi? Non pervenuti. Selezione di pani? Zitti e mosca, ci sono i grissini e delle fette di pane bianco.
Che il cliente sia finito al di fuori da ogni riferimento spazio-temporale lo si evince già dagli antipasti, con evergreen come crostini (riproposti da sé o con gli affettati) o il tagliere misto di formaggi. In quanto ai primi, nell’epoca del selfie dilagante e del food-porn come resistere alla tentazione di uno spaghetto al pomodoro o al ragù, di una lasagna, di un raviolo ricotta e spinaci o di una zuppa di verdure? E i secondi, con un trionfo di scaloppe (ai funghi, alla milanese, alla pizzaiola, al limone) adombrato solo dai saltimbocca alla romana? Qui si toccano vette altissime con il roastbeef da mensa aziendale, l’arista al forno ospedaliera, i bocconcini di vitella da villaggio vacanze e le polpette della casa. Roba da far impallidire chef pluristellati o far boccheggiare critici, recensori e gastronauti.
Per onestà, va detto che – così come i piatti – anche i prezzi non hanno alcuna velleità particolare. Si pranza o cena con cifre ragionevoli, e in fondo non si mangia male. Però, varcandone la soglia, bisogna avere piena contezza di dove si è finiti. In un ristorante fuori dal tempo e dallo spazio.