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Il film: “The trip to Italy” (2014) o come ti smarchetto il Bel Paese

Voleva forse essere un viaggio in Italia sulle orme di Lord Byron, in realtà diventa una mera marchetta al Bel Paese che sembra firmata da un ufficio del turismo con poca fantasia. È il film “The trip to Italy” (2014) con Rob Brydon e Steve Coogan. Deludente ai limiti dell’irritante

the trip to italy movie

Se non ci fosse dietro la BBC sembrerebbe quasi che i protagonisti abbiano avuto “sponsorizzato” (leggasi “pagato”, ndF) il loro film sull’Italia da alberghi, ristoranti e uffici del turismo con poca fantasia, tanto il viaggio che raccontano – e che dà il titolo alla pellicola – smette di essere essenza stessa del film e diventa una mera e smaccata marchetta agli stereotipi d’Italia e alle sue bellezze. Ecco perché a tratti è quasi irritante, The Trip to Italy (2014), pur presentandosi come una brillante commedia.

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Quando non hanno le mascelle impegnate i due protagonisti, che nel loro viaggio sulle orme di Lord Byron e Shelley magari vorrebbero ricalcare gli straordinari dialoghi e le impagabili atmosfere de “Le invasioni barbariche”, si ritrovano a cianciare senza costrutto sugli argomenti più diversi (imitazioni di Anthony Hopkins, Humphrey Bogart o Hugh Grant, dissertazioni sul significato del nome di Alanis Morissette, analisi su come distrarre una persona mentre stai per mangiargli le gambe, ecc…), o a ritrovarsi a parlare italiano giusto per farne sentire la musicalità. Nei desiderata degli sceneggiatori voleva forse essere un dialogo sul senso della vita attraverso le piccole cose – una via di mezzo tra un rosario di pillole di leggerezza e la stand up comedy, costantemente impegnati a strappare un sorriso – con l’Italia da cartolina a far da sfondo, ma non è andata così.

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La trama è imbarazzante per la pochezza di idee e l’assenza di struttura, così come la caratterizzazione dei protagonisti ha davvero scarsa profondità. L’unica cosa da salvare sono i paesaggi tipicamente italian-style e la cucina decantata (e degustata), ma la cartolina non basta a metter su un film. Per 138 minuti assistiamo allo sviluppo di un plot narrativo non più complicato di quello di un porno, tanto per essere chiari. Se aggiungiamo che nulla viene fatto per nascondere riferimenti a brand o a tipicità locali, a un certo punto (dopo circa 7 minuti dall’inizio) ti viene il sospetto che il film non sia altro che una marchetta buttata lì senza troppa voglia.

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Partiamo dall’inizio, primo giorno di viaggio: “Nulla eguaglia il Piemonte come combinazione di buoni vini, gastronomia e scenari di campagna” recita uno dei due, raccontando l’itinerario da Torino a Bra, Alba e Asti per assaggiare Barolo, Barbaresco, Barbera (e chissà quanti anglofoni avranno fatto l’identica battuta del film, ossia “Hanna & Barbera”). Al pranzo presso la storica Trattoria della posta vengono serviti bagna cauda, tajarin al ragù, quaglia disossata e coniglio arrosto, portati in tavola – dopo una serie di brevi sequenze in cucina – con un proliferare di inquadrature niente affatto funzionali a qualsivoglia sviluppo narrativo.

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E poi l’auto in dotazione. “Com’è guidare una Mini in Italia? Bellissimo” si recita. Ovviamente, l’auto è costantemente inquadrata con il logo in bella vista: la campagna circostante, così come i paesaggi cittadini, sono marginali quanto gli spalti durante una gara di Formula 1. E quando l’inquadratura non mostra il fronte dell’auto tocca all’interno, con le riprese che – guarda un po’ – indugiano a lungo sul cruscotto della vettura.

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Parlando di selvaggina, i nostri eroi in terra d’Enotria dicono che “fa benissimo perché l’animale vive nella natura e fa esercizio fisico” (un po’ come il campione di atletica Mohamed Farah, di cui discutono – in un macabro parallelo sul gusto e la salubrità della carne ben allenata – su come mangiargli le gambe se fosse in procinto di morire ed entrambi fossero sopravvissuti a un incidente aereo).

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Lasciato il Piemonte per la Liguria, il disco non cambia: a San Fruttuoso si pranza con moscardini e patate prima di provarci ( e riuscirci) con la ragazza di turno, mentre il giorno dopo ci si sposta sulla spiaggia di Viareggio a parlare di come un giorno ci si ritroverà tutti su una tavola, nudi e con una targhetta all’alluce. Poi di filato nel countryside toscano a mangiare ravioli (sic!) con la solita assurda alternanza della regia tra uno stacco di due-secondi-due in cucina e poi di nuovo a dar sfogo al vaniloquio a tavola fino al climax dell’arrivo del cameriere con la portata successiva.

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Nuovo “omaggio” all’hotel (nello specifico, Relais La Suvera, nel senese), con la scena – ricca di pathos e pregna di significato, non c’è che dire – della hostess che fa fare al protagonista il giro della struttura e della suite prescelta: per chi conosce un po’ il mondo delle marchette, la puzza inizia a sentirsi sempre più vicina.

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I minuti passano stancamente, in “The trip to Italy”, e ti accorgi di quanto vani siano i tentativi di mettere un briciolo d’ironia nelle conversazioni o di entrare in empatia con lo spettatore. La coppia Walter Matthau – Jack Lemmon è lontana anni luce, forse più vicina c’è quella Davide Mengacci – Gigi Marzullo, coi testi scritti da un Martufello fuori fase. Gli sbadigli stanno per avvicinarsi, quando all’improvviso…. nulla accade, e gli sbadigli arrivano con la puntualità di un Frecciarossa.

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Sulle note di Alanis Morissette il dinamico duo arriva a Roma, preda del traffico, giusto per inanellare qualche altro luogo comune (siamo nel 2014, la Raggi ancora non c’era). E del tutto fuori contesto si torna agli stacchi di tre secondi in cucina, dove odo servire un “tufolo” che dovrebbe essere un piatto tipico (ma di cui non v’è traccia nell’intero web, al netto di un quartiere del crotonese). L’ineffabile fiera delle banalità di The Trip to Italy continua con un’imitazione del mandolino, prima di prendere il largo alla volta di Pompei e perdersi in dissertazioni avvincenti quanto il resoconto dell’operazione all’anca di zia Dorina.

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Il culmine di The trip to Italy si raggiunge quando i due leggono a voce alta la recensione – entusiastica, ça va sans dire – dell’hotel in cui stanno andando, in quel della costiera amalfitana. Qui si ripete per la quinta volta la scena della cucina, del cameriere che porta il piatto (linguine, stavolta) e del “wow, fantastic!” che il protagonista si lascia scappare prima di imboccare nuovamente viale delle Ciance a tutta velocità.

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A Ravello i nostri eroi dormono a Villa Cimbrone – altro megaspot – e anche in questo è essenziale per la trama stessa del film che l’hostess faccia visitare le suite, raccontandoci che vi ha dormito Greta Garbo. Infine Napoli, col cimitero delle Fontanelle a rallegrar lo spirito prima dello spot alla Caremar, e poi Capri che fa rimpiangere le scene di Fantozzi ivi girate, alla luce del sesto passaggio cucina-tavola-chiacchiere-imitazioni.

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Tra un’imitazione e l’altra, a cercare di tirar su il film ci pensano ogni tanto le dotte citazioni e gli aneddoti sul cinema buttati qua e là, ma non è nulla che la pagina “Forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica non possa rivelare. Ciò che manca, in quell’assurda e reiterata invasione delle cucine italiche che The Trip to Italy si ritrova ad essere, è qualsiasi riferimento a ciò che i protagonisti assaggiano: in tre secondi di inquadratura si mostra un tale che di volta in volta impiatta, rosola, condisce o chissà cos’altro, ma senza dare nessuna vera informazione. Ogni tanto viene rispolverato Byron, giusto per non perdere ufficiosamente il timone della pellicola. Ma è troppo tardi, e dannatamente troppo poco. La marchetta, vuota come un guscio di noce e puzzolente di cellophan, è servita.

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