sabato 27 Aprile 2024
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Adesso anche la stampa “seria” di settore si fa trollare da chef Ruffi?

Qualcuno la chiama post-modernità, altri si rifanno allo zeitgeist, lo spirito del tempo. Complice la capillarità dei social che – per dirla con le parole di Umberto Eco – hanno dato voce a legioni di imbecilli, ormai una parte significativa delle informazioni che circolano in rete non supererebbe il vaglio di una minima analisi critica, se non addirittura quello del buon senso. Nulla di nuovo sul fronte digitale, intendiamoci: viviamo in un mondo in cui quel confine tra il vero e il verosimile di manzoniana memoria ha ceduto il passo a situazioni e personaggi tra il kafkiano e il surreale alla Andrè Breton.

Ma se ormai chi segue il settore enogastronomico o è abituato a districarsi tra l’involontaria verve dei fenomeni del web sa riconoscere quanta monnezza digitale siano articoli come questo (e non entro nel tema del clickbaiting né nella scelta di usare il nome dell’Enoteca Pinchiorri per indicizzare il pezzo e poi sparare stronzate a tutto tondo, come ha osservato un fine analista), chi scrive è rimasto sorpreso da come una pluralità di testate “serie” abbiano dato spazio, con sprezzo del ridicolo, a una dichiarata parodia – pardon, perculazione – del fine dining quale è chef Ruffi.

Che con i suoi piatti il cuoco di Salerno sia una macchietta è noto a chiunque non sia finora vissuto sulla Luna. Che prenda bellamente per i fondelli la ristorazione contemporanea, i suoi protagonisti e i suoi canoni è di un’evidenza altrettanto lampante. Ecco perché invece di ignorare chef Ruffi senza dargli la dignità di quel palco che lui sbeffeggia, o al massimo derubricarlo a fenomeno gastro-satirico per tirare su qualche like o ridere degli eccessi della narrazione del food-system, c’è chi non solo gli ha dato voce, ma – almeno spero – non si è nemmeno accorto di aver prestato il fianco all’ennesima perculata. Cascandoci con tutti i piedi.

Il riferimento è a questa intervista del Corriere della Sera, peraltro a firma di una delle più autorevoli penne del settore. Le premesse dell’intervista sono rese esplicite sin da subito: “Autoironia o egocentrismo? Con questa intervista cerchiamo di scoprirlo”. Ma invece di scoprire chi è chef Ruffi – non tanto i dati anagrafici, quando se c’è o ci fa – magari provando ad andare a fondo su motivazioni e obiettivi, quella chiacchierata diventa una trollata senza precedenti.

A scanso di equivoci: nessuno apprezza la leggerezza e l’ironia più di chi scrive, lontano anni luce da qualsiasi gravitas retorica o paludamento narrativo. Ma qui si tratta di dare legittimazione col megafono – e che megafono, parliamo del Corriere della Sera – a un meme vivente che scrive, a proposito della Carbonara, che “da quando c’è Ruffi è rinata. In Italia non la mangiava nessuno, la vera. Fuori Roma a casa si faceva una volta ogni vent’anni, ora è scoppiata la carbonara-mania”. Davvero? È lontanamente credibile tutto ciò?

E ancora, tratto dal vangelo secondo Ruffi: “Penso davvero che io sia lo chef più famoso d’Italia, non dico del mondo, perché secondo me al di fuori dell’Italia non possono neanche essere chiamati chef. Se la gente mi esalta come una rockstar un motivo ci sarà, non sono mica pazzi”. Cosa c’è di diverso dall’ascoltare le parole di un terrapiattista? Perché non si rivela, gli chiede la giornalista: “Si immagina la folla, le urla, gli autografi, i selfie? Quando mi svelerò, e sarà presto, diventerò un volto virale”. Oddio, questa in fondo potrebbe anche essere verosimile, ma non sarebbe un bel segnale…

Ciò che realmente fatichiamo a comprendere è questo: chi ha raccolto le risposte di chef Ruffi si è posto la domanda se quelle parole fossero anche solo lontanamente plausibili, messe in bocca all’apostolo della Versatile? Racconta ancora chef Ruffi: “Lavoro molto a Dubai e in Arabia Saudita, viaggio tra Asia e Inghilterra. Sono finanziato da uno sceicco, ma più che finanziatore per me è un amico e un collega. Lui e tutta la sua famiglia sono persone speciali. Presto ve lo farò conoscere”. Assomigliano alle frasi dell’amico cazzaro che ormai non vengono prese sul serio nemmeno da lui stesso. “Dove ho imparato di più è stato con un maestro in Cina: cucino cinese meglio dei cinesi”. Se la prima parte è potenzialmente vera, sulla seconda c’è da chiedersi se la credibilità del Corriere non risenta a dar spazio (non dico ad avallare, per carità, ma anche solo riportarle) a simili alzate d’ingegno.

Ricordo infine gli anni dell’adolescenza, quando tra amici sbronzi si giocava a chiedersi con chi avremmo preferito finire sotto le lenzuola. Mutatis mutandis, qui la domanda a chef Ruffi su chi vorrebbe al proprio tavolo vede nell’ordine “Elon Musk, papa Francesco, il coreano grassoccio, non ricordo mai il nome, ah sì, Kim Jong-un, e il cantante Morgan”. Quale informazione mi dà, tutto ciò, per giustificare l’occupazione di spazio nelle mie già stanche sinapsi? Nessuno che noti un cortocircuito? Nessuno che si chieda se uno che asserisce di star per aprire un ristorante a Milano possa affermare di invitare “grandi calciatori, quelli ti fanno pubblicità, mangiano anche le pietre e spendono molto. Poi arabi e russi, ti fanno fare i soldi e li freghi facile, pagano quanto vuoi e non danno fastidio”.

Mi si potrà rispondere: “Dai, è ironia”. Non c’è scritto da nessuna parte. Che sia tutta una gigantesca bufala, a chi scrive appare ben probabile. Meno forse ad altre testate che riprendono la “””notizia“”” (sì, due sole virgolette erano davvero troppo poche) soffermandosi sull’apertura di Milano. “Lo chef ha avvisato che i lavori sono già iniziati (dove, non si sa: la location rimane top secret)”. Uè, ma non viene qualche dubbio? Poi magari apre davvero e sbanca, eh, ma non è il caso di farsi qualche domanda prima di dare in pasto al lettore certe cose?

Mi si potrà ancora obiettare: “Eh, dai, sei un hater”. Nah. Non ce l’ho con chef Ruffi, figuriamoci. Lui fa il suo teatro, coltiva la sua schiera e percula un food-system già bravo a ricoprirsi di melma da sé (ogni riferimento a Ciao Darwin è puramente voluto). Mi spiace solo che il Corriere si sia fatto raccontare fregnacce e le abbia riportate per come sono, in un’epoca in cui il lettore medio (specie in via d’estinzione, poi chiediamoci perché) non ha gli strumenti per cogliere certe eventuali sottigliezze.

Una lezione però l’ho imparata: se d’ora in avanti mi capiterà di concludere una conversazione dicendo agli interlocutori “beh, vi saluto che tra 10 minuti ho il torneo di briscola con Trump e Messi” non tollererò sberleffi, sguardi interdetti né telefonate per richiedere un TSO.

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Marco Gemelli
Marco Gemelli
Marco Gemelli, classe ’78, giornalista professionista dal 2007. Dopo anni come redattore ordinario al quotidiano Il Giornale della Toscana, dove si è occupato di cronaca bianca e nera, inchieste, scuola e università, economia, turismo, moda ed enogastronomia, è passato alla libera professione. Oggi collabora con diverse testate online e cartacee, tra cui Il Giornale, Forbes, l'Espresso, Wine & Travel. È membro della World Gourmet Society e dell’Associazione Stampa Enogastroagroalimentare Toscana (Aset), nonché corrispondente italiano per Lust Auf Italien.

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