Non mi riesce replicare il tono di voce del ragazzino del film “Il sesto senso” (l’attore H. Joel Osment, qui) né i suoi occhi spaventati mentre racconta a Bruce Willis il suo terribile segreto. Ma l’impressione che ho avuto è stata la medesima del film di M. Night Shyamalan, quando mi sono concesso una passeggiata serale per il centro storico di Firenze, in una tiepida atmosfera di metà settembre. E’ lì, dietro un vetro opaco o una vetrina, che ho visto la carne morta. Tanta. Immobile. Non è la prima volta, lo ammetto, ma è da tanto che non mi soffermavo a guardarla con attenzione. Ma non l’ho trovata cambiata. Anzi, potrei persino giurare che in qualche caso, quella carne morta era la stessa che vidi la prima volta.
Parlo dei ristoranti del centro, e della diffusa abitudine di esporre in vetrina – appunto – quarti di bue o interi filetti di ciccia. Un modo di provare al cliente che la carne che viene servita al tavolo è fresca? Non direi, visto che quel pezzo di carne non è necessariamente quello che il cuoco maneggia in cucina. Un tentativo di impressionare il potenziale avventore mostrandogli di avere così tanta carne da poter concedersi il lusso di tenere chili di ciccia a prendere polvere in vetrina? Difficile da credere, visti i prezzi che poi si leggono sui menù. E allora cosa? Passi il concetto di “cucina a vista”, quell’inno alla trasparenza che mette alla prova le capacità e l’igiene rispettivamente dello chef e del suo ambiente di lavoro. Ma per la carne in vetrina il gioco non regge…
Non intendo passare la vecchiaia a pagar querele a ristoratori permalosi, quindi non farò nomi e non metterò foto. Ma almeno il racconto mi sarà concesso. La prima carne morta la scorgo in un ristorante del centro, zona Stazione. E’ lì in vetrina, fermo, enorme. Mi sforzo di immaginarlo tagliato a fette e messo sulla piastra, ma il primo pensiero è un altro: mi avvicino e dò un’occhiata alla polpa. L’impatto visivo non è affatto invitante, il roseo che ti aspetti cede il passo a un colore che vira inesorabilmente verso lo scuro. A poca distanza, foglie d’insalata che hanno visto tempi migliori. Arriviamo in zona San Lorenzo, e l’apparizione si rinnova: dietro una vetrina, accanto a badilate di frutta e verdura, ecco lì una “fiorentina” che mi guarda da dietro il vetro. Meno andata della precedente, ma non basta a stuzzicarmi l’appetito. Così come non c’erano riuscite, poco prima, la pizza e la crepe viste in un noto locale di un’altrettanto nota piazza del centro – cotte parecchio prima e lasciate lì a monito per i turisti – né tantomeno il piatto di pasta qualche strada più in là (dai, lo so che un giornalista dovrebbe essere preciso e rigoroso, ma non ho affatto voglia di sentirmi raccontare da un ristorante – o dal suo avvocato, ch’è peggio – che quella è la normale consistenza d’una pizza o di un piatto di penne, né di sentirmi giurare e spergiurare che quel piatto era ancora fumante. Se cercano di farmi credere che Cristo è morto di sonno sono liberi di farlo, allora gli evito proprio il fastidio di cercare una scusa).