Lo confesso, per un attimo mi sono guardato intorno cercando qualche telecamera o un segnale che tradisse l’artificiosità di ciò su cui avevo appena posato lo sguardo. Invece no, tutto genuino. Ho perso l’attimo e non ho scattato una foto, ma mi riprometto di tornare presto da quelle parti e documentare a dovere l’accaduto, qualora dovesse succedere ancora. Già, perché non è detto che capiti tutti i giorni di vedere un gruppo di ragazzi appassionati di parkour esibirsi in flessioni collettive ed esercizi di stretching proprio davanti all’ingresso del Burger King. Il parkour, per chi non avesse frequentato le periferie parigine negli anni Novanta, è uno “sport urbano” che consiste sostanzialmente nel saltare di superficie in superficie senza cadere, anche se Wikipedia ne dà una definizione ben più articolata della mia.
Scenario della rivelazione è il parcheggio di piazza Alberti, alla periferia di Firenze. Un luogo dove il cemento e il vetro disegnano geometrie e architetture razionali, l’ideale dunque per chi ama il free running e le sue declinazioni. E’ tardo pomeriggio, e costeggiando la struttura noto un gruppo di una dozzina di ragazzi e ragazze sulla quindicina, intenti a saltare e correre, tutti con la stessa maglietta grigia. Qualcuno azzarda un lancio da un corrimano all’altro delle scale, in equilibrio più che precario, sotto gli occhi dell’amico più esperto. Poi si riuniscono in cerchio, si abbassano sulle ginocchia e iniziano una serie di flessioni all’unisono, veloci e metodici come reclute al primo mese di naja. Il tutto accade a pochi passi dall’ingresso del Burger King. Una casualità? Molto probabilmente. Ma per chi ama ricercare nelle cose un certo simbolismo – e io sono tra questi, con malcelata soddisfazione – vale la pena di accostare e compiere un paio di verifiche.
Parcheggio l’auto ed entro da BK, per una riprova che ha il sapore della prova del nove. Infatti, i conti tornano: dò un’occhiata in giro, conto i presenti ai tavolini e all’interno del fast food – neanche a farlo apposta – trovo circa una dozzina di quindicenni, ognuno col proprio panino e le patatine. Nessuno di loro guarda i coetanei, così simili e così diversi, due modi diversi di passare in compagnia un lunedì pomeriggio di fine maggio. Mi chiedo se prodursi in flessioni davanti all’ingresso di un fast food possa rientrare nel novero delle provocazioni adolescenziali, nel riscatto del fitness sull’impero del fritto, nel gesto rivoluzionar-salutista di chi vuol portare il verbo (“sudare”) là dove il verbo (“addentare”) vi è già. Poi resisto alla tentazione di ordinare un Whopper e (senza fatica alcuna) a quella di unirmi al cerchio delle flessioni. Riprendo l’auto e vengo via.