Ormai è un evergreen della cucina toscana apprezzato da residenti e turisti. Chi viene da fuori, però, spesso non immagina che dietro la nascita del peposo dell’Impruneta ci sia addirittura ser Filippo Brunelleschi e che l’occasione sia stata la costruzione della cupola del Duomo di Firenze
Ormai è un piatto piuttosto conosciuto, un autentico evergreen della cucina toscana apprezzato da residenti e turisti. Chi viene da fuori, però, spesso non immagina che dietro la nascita del peposo dell’Impruneta ci sia addirittura ser Filippo Brunelleschi e che l’occasione sia stata la costruzione della cupola del Duomo di Firenze. Da quasi seicento anni, infatti, una leggenda narra che Filippo Brunelleschi abbia adoperato il “peposo” per nutrire e riscaldare i suoi artigiani che lavoravano alla fabbrica di Santa Maria del Fiore.
La leggenda del peposo dell’Impruneta
In particolare, nei primi anni del ‘400 centinaia di operai – gente dalla fame massiccia, fiaccati dalla fatica e infreddoliti dal gelo notturno – stavano lavorando alla costruzione della cupola. C’era ovviamente chi era stato incaricato della preparazione del pranzo, e un giorno qualcuno ebbe l’idea di usare le piccole fornaci dell’Impruneta e di Greve (gli operai “fornacini”, appunto) per cuocere a fuoco lento, insieme alle tegole, anche dei bei pezzi di carne che venivano messi all’imboccatura del forno in appositi tegami e cosparsi di vino dei colli per insaporire.
La leggenda vuole che un giorno passasse di là proprio ser Filippo Brunelleschi, che rimase colpito dal piatto che i fornacini stavano preparando. Si avvicinò, l’assaggio e disse: “Troviamoci domani qui a questa stessa ora, vi insegnerò come arricchire questa pietanza”. In effetti alla ricetta degli operai mancavano le spezie, che arrivavano da lontano e a quel tempo erano piuttosto costose. Loro non potevano permettersele, Brunelleschi invece sì. L’indomani arrivò con un sacchetto di pepe e altre spezie, e lo usò per condire la carne.
Et voilà, nacque il “peposo alla fornacina”, prima versione di ciò che sarebbe diventato – e rimasto nei secoli – il “peposo dell’Impruneta”.