Massimo Montanari non ha certo bisogno di presentazioni. Ma se foste tra quei pochi che ancora non lo conoscono, sappiate che si tratta del più celebre storico italiano dell’alimentazione, autore di testi ormai classici come La cucina italiana. Storia di una cultura, L’identità italiana in cucina e La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa.
La sua ultima fatica editoriale s’intitola Amaro. Un gusto italiano, per i tipi di Laterza. Non lasciatevi ingannare dall’immagine di copertina, tuttavia: il libro non parla – non solo almeno – dei noti digestivi, ma di tutti quei prodotti che si caratterizzano per il sapore amaro o amarognolo e che sono protagonisti della cucina italiana: dai radicchi ai cavoli, da certe insalate alle melanzane, dai carciofi ai capperi, da certe erbe aromatiche come rosmarino o ginepro a tutta la famiglia degli agrumi, dalle olive a quei vini che l’amaro lo portano nel nome, come l’Amarone o il Negramaro, per arrivare al caffè e al cioccolato e finire con i digestivi di cui sopra.
“Non possiamo pensare all’amaro come a qualcosa di esclusivo del gusto italiano. La cucina di tutti i paesi, in varia misura, si confronta e si diverte con questo gusto complesso e difficile. Ma che sia tipico della tradizione italiana, questo è piuttosto evidente”
Questa è la tesi iniziale del libro, che nonostante il titolo è di godevolissima lettura. Ma la tesi si sviluppa lungo le pagine, arrivando a formare una sorta di trittico del gusto che vede ai suoi tre vertici l’amaro, per l’appunto, ma anche il crudo e le erbe. Eppure la lezione forse più importante del libro – e più in generale del mestiere di storico – è quella di insegnare a sfuggire gli essenzialismi, i determinismi. Come spiegare altrimenti l’attrazione tipicamente italiana verso il gusto, tra quelli esistenti, il più repellente? Ci spiega Montanari:
Quando parliamo di gusto giochiamo su entrambi i campi, a cavallo tra fisiologia e cultura: perché sono la lingua e il palato, cone le papille gustative, a sentire i sapori; ma chi li valuta (nel senso di giudicarli buoni o cattivi, quindi accettarli o rifiutarli) è il cervello, con tutto il carico di valori e modelli, giudizi e pregiudizi che vi sono storicamente stratificati, assumendo in ogni comunità specifici e particolari caratteri.
E se questo è vero, come lo è, allora possiamo estendere questa stessa logica a tutti gli altri sapori, a tutti quei piatti e pietanze che sono al di fuori delle nostre abitudini, di ciò che conosciamo, ed aprirci – aprire il nostro cervello, cioè – all’esplorazione, alla sperimentazione, infine, alla conoscenza. E così facendo sviluppare un gusto del tutto personale.