All’interno del museo Pecci, a Prato, il ristorante Myo è feudo dello chef Angiolo Barni, colui che per primo portò il mondo del fine dining nella città laniera
foto di Luca Managlia
In un mondo veloce a dimenticare e non sempre incline alla riconoscenza, spesso non è facile vestire i panni dell’antesignano, portarsi sulle spalle l’onore e l’onere di essere stato precursore di una moda, figuriamoci di qualcosa di più duraturo: eppure aprire la strada che poi altri seguiranno, specie nel territorio a cui si è legati, dà sempre una sottile soddisfazione. Ecco perché Prato deve essere grata a uno chef come Angiolo Barni, l’uomo che per primo introdusse il fine dining nella città laniera, negli anni Novanta.
Classe ’69, in quel periodo Angiolo Barni era alla guida dell’enoteca di famiglia, apprezzata anche come negozio di alimentari e forno, grazie al padre abile panificatore: è lì che lo chef si ritagliò il primato di cuoco “alto” in una città ancora ricca grazie alla fiorente industria tessile, guidando il passaggio dalla trattoria al ristorante. Non solo: fu il primo, in città, a legare il mondo del food a quello dell’arte contemporanea, sviluppando in parallelo le sue due passioni. Un mood che oggi a Prato non è difficile trovare in almeno un altro paio di ristoranti di buon livello, ma che all’epoca non era affatto scontata.
Se l’Enoteca Barni è stata un laboratorio di ricerca e innovazione, pur senza perdere la solidità della tradizione toscana, dal 2016 la “mano” dello chef si sposta all’interno del Museo Pecci, così come la cantina, particolarmente sensibile ai vini francesi in generale e della Borgogna in particolare. Viene scelto il nome Myo, in omaggio a un’opera del 1951 dell’artista americano Cy Twombly, e il ristorante si assesta sui 45-50 coperti.
Aperto da Angiolo Barni insieme alla compagna Elena Paci, il ristornate apre i battenti in contemporanea con la ristrutturazione del museo, di cui diventa parte integrante. Allo stesso tempo, però, il locale risente delle alterne fortune delle mostre allestite nel museo: le prime sono un successo, poi inizia un lento declino. E il Myo inizia a camminare da sé, senza il traino del museo.
Grazie all’esperienza di Angiolo Barni, sia in cucina che nel ruolo di anfitrione, il ristorante mantiene un posto speciale nel cuore dei gourmand pratesi. Abbiamo assaggiato antipasti come Scampi, astice e asparagi, pietanza dalla forte connotazione vegetale – oggi di tendenza – enfatizzata e impreziosita da un uso adeguato dell’olio extravergine d’oliva.
Un altro antipasto del Myo sono i calamaretti spillo farciti con verdure e foie gras, insieme ad altri spadellati con crema di fagioli bianchi. Un piatto, abbinato a un eccellente Savagnin francese, che riesce a tenere insieme le corde di delicatezza e personalità. Anche in questo caso, l’olio EVO dà una marcia in più alla portata.
Uno dei piatti più riusciti dell’intero menù di Angiolo Barni è lo spaghetto fumè con vongole (in parte aperte al vapore), pomodoro da insalata e bottarga di pesce San Pietro: l’affumicatura eccezionale si unisce a una sapidità e un’intensità di sapore senza dubbio forti, ma mai sopra le righe.
Tra i primi in carta al Myo si rivela interessante anche il raviolo di chorizo (la carne di maiale speziata e tritata in maniera grossolana) con fagioli e cozze liguri. Si tratta di un piatto dalla grande aromaticità, che prende un accostamento classico come fagioli & cozze e lo sviluppa con un tocco creativo come il chorizo nel ripieno della pasta fresca. Un piatto di sostanza, per palati fini.
Dopo tre portate di pesce e una che introduce la carne, il viaggio nella cucina di Angiolo Barni a Prato continua con una pancia di maiale del Poggetto con cipolla, ravanelli e ginger. Caratteristica inattesa di questo piatto è l’aroma che arriva a esprimere note balsamiche, una gradevole morbidezza, persino freschezza, senza invadenti “glassature”. Il dessert del Myo è affidato a un piatto ormai sdoganato nella sua forma destagionalizzata, il panettone estivo. Angiolo Barni lo propone, accompagnato da sorbetto, sia nella versione “al naturale” sia in quella leggermente tostata. Anche qui, è al naso che il piatto si fa apprezzare particolarmente.
Anche se la storia di Angiolo Barni parla da sé, l’esperienza del Myo mostra una volta di più come Prato abbia gli strumenti per uscire dai luoghi comuni della città ‘di provincia’. Chi meglio dello chef che ha portato il fine dining a Prato può porsi – ancora una volta – come capofila di un progetto di rinascita culinaria di livello più che regionale?
In fondo il territorio è maturo: pensiamo a locali come il Paca di Niccolò Palumbo, il Moi di Francesco Preite, il Pepe Nero di Mirko Giannoni, il Dek con Giulia Talanti, a pasticcerie come quelle di Paolo Sacchetti o Luca Mannori, e a cocktail bar come il Mag56 di Cosimo Lucchesini o il BigEasy di Marco Serri.