giovedì 25 Aprile 2024
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Food: le parole della comunicazione gastronomica che davvero ci hanno stufato

Tra banalità, frasi fatte, luoghi comuni e parole stropicciate fino a farle significare qualunque cosa, il mondo della comunicazione del food è piena di parole che – francamente – ci hanno un po’ stufato. Eccone alcune, ma la lista è lunga…

Chi scrive di ristoranti per piacere, per professione o – se è fortunato – per entrambe, sa bene di doversi muovere a cavallo tra due diverse esigenze: da una parte leggere il più possibile recensioni e valutazioni dei colleghi (scegliendoli tra le penne più autorevoli e brillanti, magari), confrontarsi con il punto di vista altrui, considerandolo uno stimolo e un arricchimento; d’altra parte, però, deve cercare di mantenere autonomia di giudizio, onestà intellettuale e possibilmente evitare di offrire al lettore una serie di banalità e luoghi comuni.

Dopo questa premessa, non possiamo esimerci dal notare con quanta frequenza ci capitino sotto gli occhi recensioni che nel migliore dei casi rasentano il servile, nel peggiore perseguono l’obiettivo con sprezzo del ridicolo. Sono tempi in cui le esigenze dello storytelling si piegano con disarmante facilità tanto alle esigenze del SEO quanto al doping emotivo-digitale con cui chef e ristoratori pensano di sollevare le proprie sorti. In altre parole, sono tempi in cui la comunicazione gastronomica sta via via perdendo il suo ruolo di racconto sincero di un’esperienza, cedendo il passo a smaccati e inverosimili panegirici che sempre più difficilmente possono essere presi sul serio.

Strumenti privilegiati di questa deriva sono alcune parole iconiche, incluso l’aggettivo che abbiamo (volutamente) appena usato. Ecco: “iconico” è un termine estremamente abusato, proprio perché questa parola è stata talmente stropicciata, tirata da una parte e dall’altra per adeguarla a ogni contesto, da aver perso il proprio significato (eccolo, per chi avesse tempo e voglia).

Ecco, tra le parole della gastro-comunicazione che davvero ci hanno stufato non mancano locuzioni come la “splendida cornice“, contro la cui diffusione il prode collega Edoardo Semmola guida la lotta con spirito donchisciottesco e inflessibilità degna d’un Torquemada. Lungi dal riferirsi a contesti eleganti e raffinati, oggi la splendida cornice è praticamente ogni cosa e il suo contrario.

In termini di cucina sic et sempliciter, poi, sfido a trovare quanti chef non si proclamano alfieri di un “mix di tradizione e innovazione“. Come se tra i due eccessi – replicare l’untuosa cucina di Nonna Adalgisa e vestire i panni di uno Steve Jobs ingrembiulato – non esistesse il giusto mezzo.

Nei comunicati stampa che affollano e intasano le mail dei giornalisti del settore, poi, la parola “esclusivo” è praticamente un evergreen. La Treccani, che con buona pace degli esperti di comunicazione non è proprio l’ultima arrivata, conferma che esclusivo significa – sul modello dell’inglese exclusive, riferito ad ambiente (circolo, club, ecc.) – “la cui frequenza è limitata a determinate persone, di solito particolarmente agiate o raffinate”. A meno che un ristorante abbia davvero prezzi poco accessibili ai più, quindi con accezione non sempre positiva, non si può applicare a qualsiasi contesto solo perché va di moda.

Veniamo a un altro termine usato nella gastro-comunicazione con soverchiante leggerezza: “unico“. Se io leggo che un ristorante offre un’esperienza unica, poffarbacco, pretendo di non trovare piatti e atmosfera abbastanza simili a un manciata di chilometri di distanza. Specie se si legge che quello è l’unico ristorante dei dintorni – o addirittura al mondo (sic!) – a fare una certa cosa. In cosa sta, chiedo, l’unicità di cui ci si riempie la bocca e con cui si sprecano byte?

Sul tema dell’abuso incontrollato di “lounge” e “bistrot” avevo già detto la mia qui, per cui mi/vi evito un travaso di bile. Ma lo stesso vale per “gourmet“, il cui uso è ovviamente legittimo finché adoperato cum grano salis. E se la “filosofia di cucina” viene utilizzata anche per indicare la soluzione al dilemma amletico tra il servire carne o pesce (con eccessi del tipo: “la filosofia del locale è far sentire l’ospite a suo agio” come se la norma fosse il contrario), una cucina “all’ennesima potenza” la vorrei proprio vedere, magari in uno chef che ha la “la tradizione nel proprio DNA“.

E non è finita: davanti all’ennesimo patron che si pone come obiettivo “l’attenzione al cliente, il servizio curato e l’accoglienza” mi piacerebbe trovarne qualcuno che invece dichiara che adora lasciare il cliente a caramellare per ore in un angolo buio del locale. Trovatemene inoltre uno che non dichiari la sua “passione” per quel lavoro (eh, quando tutti i posti da presidente, calciatore e astronauta sono già stati presi uno si deve pur adeguare….).

Ci sono recensori che si stupiscono che i camerieri siano “al servizio dei clienti” e non intenti a un tressette con la brigata, mentre il ristorante “calibrato sulle esigenze del cliente” francamente stento a figurarmelo. E ancora: sottolineare che “il cliente è libero di scegliere il menù” serve magari a ricordare che non ci si trova alla mensa aziendale o in fila per il rancio in caserma.

Noi che abbiamo visto una “masterclass” condensata in 10 minuti di spiegazione su come si stende un impasto, o abbiamo sentito chiamare “eccellenze del territorio” qualunque cosa non fosse riempita di muffa né rivestita dal cellophane, siamo rimasti attoniti davanti a “showcooking” leggermente più complessi dei Quattro salti in padella. E chissà che oggi persino Giovannone il sottococo (qui, per chi avesse vissuto sulla Luna negli ultimi 40 anni) e i suoi epigoni non trovino nell’universo digitale qualcuno disposti a chiamarli chef, in cambio di un piatto caldo e un like.

Memore del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, mi rendo conto che sui 1200 articoli scritti finora sul Forchettiere potrei essere incappato anch’io in alcuni di questi errori. Per cui mi cospargo il capo di cenere. A prescindere, come diceva Totò.

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