venerdì 26 Aprile 2024
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La recensione: “Burnt – Il sapore del successo” (2015)

Pochi mesi fa è uscito nelle sale il film “Burnt – Il sapore del successo” con Bradley Cooper, per la regia di John Wells. Bello il protagonista, non si discute, ma i cliché più abusati del mondo dell’alta cucina vengono così tanto rispolverati che alla fine non si va molto oltre una parodia di Ratatouille solo a tratti interessante

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Considerato quanto il mondo della cucina trovi seguito e attenzione anche nel mondo del cinema, da qualche tempo a questa parte, non c’è ormai da stupirsi troppo nel trovare nelle sale una nuova pellicola che racconta cosa succede nel backstage di un ristorante con pretese di alta qualità. Peccato che a volte quella stessa qualità di cui si parla si riscontra più facilmente nelle scene del film che non nella fattura del film in sé. È esattamente ciò che accade in “Burnt – Il sapore del successo“, pellicola del 2015 di John Wells con Bradley Cooper nei panni dello chef. Stavolta le aspettative erano abbastanza alte, non fosse altro per il ruolo da protagonista affidato al bel Cooper e la presenza nel cast di Uma Thurman ed Emma Thompson. Peccato che la prima abbia appena un cameo e la seconda ricopra un ruolo appena più che marginale nell’economia della pellicola. Senza infamia e senza lode Sienna Miller, mentre Daniel Brühl (chi se lo ricordava, dopo Goodbye Lenin?…) tira fuori dal cilindro un personaggio nel quale sembra perfettamente a suo agio. Curiosa, infine, la partecipazione del nostro Riccardo Scamarcio, che di battute ne ha non più di una ventina.

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Il film racconta la storia di uno chef costretto ad azzerare la propria vita professionale dopo aver mandato tutto all’aria per colpa di droghe e abusi, e ripartire da zero alla conquista delle tre stelle Michelin. Un canovaccio già parzialmente visto in “Sapori e dissapori”, solo che al posto di Cooper c’era Catherine Zeta-Jones. Uno dopo l’altro, la pellicola snocciola tutti i cliché più abusati del mondo dell’alta cucina: l’ossessione per le tre stelle come chiave di volta per dare un senso a tutta un’esistenza, i rapporti di forza gerarchici e alienanti all’interno della brigata, il sovrastimato potere dei critici gastronomici (memorabile, per lontananza dalla realtà, l’apertura di pagina dedicata alla recensione del suo ristorante su un quotidiano palesemente generalista, con titolo a tutta pagina neanche Kim Jong Un avesse dichiarato guerra al resto del mondo) e la storia d’amore che brucia tra i fornelli. E ancora: la costruzione di una squadra con cui tentare il riscatto – già vista in miriadi di situazioni diverse dalla cucina, da Ocean’s Eleven ai Soliti Ignoti fino a Shaolin Soccer – e il percorso di redenzione del protagonista.

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Beh, non che alcune cose non riprendano un po’ ciò che davvero accade in qualche cucina, ma stentiamo a immaginare il costante turn-over di piatti da portata reso necessario dall’abitudine degli chef di gettare contro il muro una pietanza poco riuscita. Così come la scena dello chef tri-stellato che sfascia letteralmente il proprio ristorante in preda a una crisi di nervi perché il rivale è più bravo di lui sembra ben poco aderente alla realtà: rabbia sì ma senza questi eccessi, come potrà confermare Davide Scabin. E ancora: in “Burnt” le maestranze vengono catechizzate sugli ispettori della guida Michelin non così diversamente da come gli agenti dell’FBI venivano istruiti su come catturare Hannibal Lecter nel Silenzio degli Innocenti. E i medesimi ispettori vengono dipinti inflessibili, rigidi e severi, un po’ alla stregua di Anton Ego di Ratatouille.

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Non mancano momenti e dialoghi piacevoli, per quanto talvolta al sapore di plastica, ma nel complesso il film non riesce a far appassionare né alla figura dello chef né ad alcun altro ruolo legato alla ristorazione. La storia parte anche bene, ma nel finale si affloscia come un soufflé trascinandosi fino a uno scontato ma non soddisfacente happy ending.

Voto 5

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